Col cambiare delle epoche e, talvolta, perfino delle stagioni, i meccanismi della storiografia possono mutare: ciò che è buono per uno, potrebbe non essere buono per un altro e così via. Naturalmente, non è compito precipuo dello storico quello di propinare giudizi morali: l’etica ha sue leggi, che sono diverse da quelle della Storia. Tuttavia, è quasi inevitabile che, in un’analisi d’ampio respiro, uno storico, in modo esplicito e implicito, dia un suo giudizio, in qualche modo filosofico, sulla materia della sua ricerca: e, forse, è anche giusto che chi approfondisce un determinato fenomeno umano, poi, umanamente, ne valuti gli aspetti sociologici, antropologici, epistemologici. Va da sé che, quando ci si imbatta in periodi storici o in accadimenti che determinino un dibattito di ordine morale, la possibilità che anche lo storico s’ingaggi in una discussione circa la divisione – dico per dire in breve- tra “buoni” e “cattivi” è molto alta.
Tra i numerosi argomenti in cui questa divisione appaia già decisa e sanzionata dalla tradizione storiografica c’è sicuramente il colonialismo: una vasta e documentata produzione, tanto scientifica quanto, soprattutto, divulgativa, ha sedimentato un’idea del tutto catastematica del fenomeno coloniale, facendone una sorta di peccato originale di quella che, oggi, viene indicata come “civiltà occidentale”. Peccato di cui, oltre che pentirsi, l’uomo europeo deve sopportare il peso ed espiare le colpe. Si tratta di una valutazione che, come spesso accade in questi casi, lascia insoddisfatto lo studioso: ogni forma di generalizzazione e di approssimazione, in effetti, nuoce a quello che dovrebbe essere l’obbiettivo principale di qualunque storico, ovvero quello di restituire il sentimento di un’epoca. Invece, in questo come in altri casi, a volte parrebbe che questo obbiettivo sia messo in disparte, dando spazio alla volontà di cristallizzare il giudizio su quell’epoca e farne una sorta di teorema, il cui scopo è, di solito, eminentemente didascalico o educativo.
Per capirci, in quest’ottica, più che quello di studiare il nazionalsocialismo e descriverne, nel modo più oggettivo possibile, le dinamiche e la storia, l’obbiettivo diventerebbe spiegare ai meno avvertiti che il nazionalsocialismo rappresentò il Male: fu un fenomeno crudele e brutale. Il che, indubbiamente, è vero: ma non aggiunge una virgola alla conoscenza concreta del nazionalsocialismo. Anzi, lo trasforma in un fossile da esaminare nella teca di un museo. Viceversa, la storiografia dovrebbe procedere in un continuo aggiornarsi delle ipotesi e delle analisi, alla luce di ogni informazione nuova messa a disposizione dei ricercatori: è, insomma, o dovrebbe essere un lavoro in divenire.

Ma, tornando al colonialismo, cosa è avvenuto, all’interno del dibattito storiografico? Per prima cosa, va detto che in questo, come in altri casi, la valutazione storica (e, con essa, come si diceva, quella morale) si è comportata in una maniera piuttosto ondivaga o, meglio, sinusoidale: quando la storia serviva a giustificare le imprese coloniali, la vulgata era quella di popoli di civiltà superiore che avevano il dovere e la necessità storica di espandersi laddove la civiltà fosse inferiore. Una sorta di Lebensraum (cioè “Spazio vitale”, NdR) ante litteram, che caratterizzò lo sfruttamento coloniale tra il XVI e il XIX secolo: si esportavano la millenaria civiltà cristiana e il progresso, in cambio di materie prime e manufatti, serenamente razziati, in Africa, Asia e, soprattutto, America Latina. La storiografia, allora, operava in direzione incensativa e agiografica nei confronti dei conquistatori, descrivendone le vittime come selvaggi, più o meno primitivi, più o meno ingenui e più o meno sanguinari. Si trattava di una narrazione, in un certo senso, giustificazionista, in cui la “sacra auri fames” veniva addolcita ed abbellita da uno scenario mistico ed eroico, che, per certi versi, è arrivato fino a noi.
La fase successiva del periodo coloniale, ovvero quella che definiremmo ‘darwiniana’ ha trovato proprio nella teoria evoluzionista la propria giustificazione, imponendo l’idea del razzismo biologico, che tanti danni avrebbe prodotto nel secolo successivo, e sostituendo la religione con la scienza: il che, peraltro, è avvenuto in moltissimi campi della cultura occidentale. In quest’ottica di spietato sfruttamento, sia pure mascherato da civilizzazione, si colloca, oggi, quel colossale senso di colpa che caratterizza la nostra società e che si concretizza in una serie di fenomeni specifici, che vanno dalla “cancel culture” all’immigrazionismo e dalla sottomissione alle stranezze nei cast dei film hollywoodiani. Il che, in fondo, in una specie di nemesi storica, ci potrebbe anche stare.
Quel che, invece non è accettabile è il considerare il colonialismo italiano alla stregua delle più feroci esperienze coloniali, come, ad esempio, quella belga o quella britannica in terra africana. Storici di casa nostra, sull’onda di quella volontà autopunitiva e flagellatoria, che ha caratterizzato gli ultimi decenni della nostra produzione storiografica, si sono sforzati in ogni modo di dipingere gli Italiani come alcuni tra i peggiori colonizzatori, afflitti da un razzismo brutale e feroce, da ultimi arrivati al banchetto coloniale. Insomma, da “Italiani brava gente” si è passati a “Italiani pessima gente”, senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza alcuna seria riflessione storica: una specie di ribaltamento storiografico, sull’onda delle mode, di una certa idea di correttezza politica o, più semplicemente, della convenienza del momento. Così, abbiamo scoperto che la nostra esperienza coloniale si è fondata su violenze inenarrabili, genocidi sottaciuti e soperchierie di ogni tipo: abbiamo, in definitiva, scoperto di essere cattivi. Anzi, cattivissimi: stupratori, assassini di religiosi, impiccatori di eroi nobilissimi. Fino a vergognarsi di essere Italiani.
E proprio questo è il punto: in una certa area culturale c’è un sentimento antipatriottico che va ben al di là del semplice antinazionalismo, fino a configurarsi come un’autentica italofobia: un rifiuto istintivo delle proprie origini e delle proprie tradizioni. La cui giustificazione non può che venire da una vulgata storica imbarazzante, che, in qualche modo, spieghi quella che, altrimenti, apparirebbe come una vera e propria patologia identitaria. E che, intendiamoci, “è” realmente una vera e propria patologia identitaria. Perché il colonialismo italiano non ha mosso dal modello spagnolo né da quello britannico o belga: il grande modello, che, da sempre, giganteggia nella mente del nostro popolo è il modello romano. Così, sia pure con tutte le varianti del caso, gli Italiani hanno sempre avuto in mente l’imperialismo di Roma, nelle proprie, modestissime, acquisizioni coloniali.
Questo non significa che non vi sia stato sfruttamento o che siano mancati episodi di violenza, crudeltà e razzismo: essi, però, sono stati, in qualche misura, mitigati da una sorta di “do ut des” che ha sempre caratterizzato la via italiana al colonialismo. Cosa che non è punto avvenuta nelle esperienze coloniali altrui, fatta eccezione per il subcontinente indiano, che, pure ha dato dei bei grattacapi alla corona britannica, tra il XVIII e il XIX secolo. Perché gli Italiani, nelle proprie colonie, non si sono mai limitati allo sfruttamento delle risorse (che, peraltro erano piuttosto scarse), ma hanno costruito, impiantato, educato: scuole, strade, ferrovie, edifici pubblici che, ancora oggi, testimoniano di un impegno notevolissimo. Questo è un dato di fatto, che, nulla togliendo all’ingiustizia tout court dell’esperienza coloniale, concede al colonialismo italiano qualche attenuante, rispetto alla rapace voracità della concorrenza. Ancor di più questo meccanismo si è accentuato durante il periodo fascista, quando il richiamo ai valori dell’antica Roma era più vivo. Frequentemente, i governatori, accanto ad atti di autentica crudeltà, si producevano in operazioni pensate a tutto vantaggio della popolazione indigena, le cui condizioni di vita venivano decisamente migliorate. L’esempio dell’illuminata gestione della colonia libica da parte di Balbo vale per tutti.
Dunque, in conclusione, stante un giudizio che non può non essere negativo sul complesso delle esperienze coloniali, bisognerebbe praticare dei robusti distinguo tra l’una e l’altra. E smetterla di vergognarci di noi stessi con implacabile masochismo. In particolare, se si vuole essere definiti “storici”.
Marco Cimmino, Gli speciali di Storia in Rete, “Colonialismo all’italiana”, agosto 2022