“Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi?”
…
Giacomo Leopardi
Scendevamo da un costone del Ngorongoro, antico vulcano del Tanganica, il cui nome è un richiamo onomatopeico al suono dei campanacci delle mucche, diretti ad un villaggio Masai.
Ma prima ci fu una sosta ad Olduvai, luogo archeologico nella spaccatura della Rift Valley, dove furono trovate le testimonianze di vita temporalmente più vicine al momento in cui tutto per l’umanità ebbe inizio.
Le impronte di un ominide, lui avanti, una femmina e forse un loro piccolo a seguirlo più indietro, sorpresi da una tormenta di ceneri e lapilli lanciati da un vicino vulcano, restano indelebili a testimoniare che tre milioni e seicentomila anni fa una famiglia lottava per la sopravvivenza e forse per noi tutti. Il fango misto a cenere si rapprese e lasciò queste tracce ad affermare che già l’uomo camminava in quella lontanissima epoca.
Avanzavano nel buio, rotto solo dagli squarci infuocati dell’eruzione, la paura come compagna di vita, senza chiedersi nulla, lo spirito di sopravvivenza come guida, l’istinto ad unirli fra loro.
Allora la vita non valeva niente eppure quella fu preziosa per tutti noi.
Percorsi solo alcuni chilometri, finalmente raggiungemmo il villaggio Masai, un semicerchio di capanne, difeso da una reticolo di sterpi acuminate; al centro una svettante acacia.
La tribù ci accolse con un canto di benvenuto, le donne in fila su un lato , gli uomini a fronteggiarle sull’altro.
Il figlio del capo, in un buon inglese, ci porse il saluto di tutto il villaggio e ci spiegò sommariamente in che consisteva la loro vita di tutti i giorni .
I Masai, popolo nomade di pastori-guerrieri, si spostano, di volta in volta, da un luogo all’altro su un territorio vastissimo, per garantire buoni pascoli alle loro mucche, unica vera ricchezza da difendere o da conquistare.
Ma per capire l’essenza della loro vita occorre entrare in una capanna, fatta con fascine di legna cementate col fango e impermeabilizzate dallo sterco di vacca. Compito di costruire la capanna è della donna, ogni uomo ha più mogli, ne può avere fino a venti, il loro numero è proporzionale ai capi di mucche posseduti. Al tramonto l’uomo masai sceglie una capanna e, di conseguenza, la moglie con cui vuole trascorrere la notte.
Passati attraverso un’angusta entrata, un buio al momento pressoché completo ci accoglie, interrotto da un filo di luce, un raggio laser naturale , causato da un’impercettibile fessura della parete della capanna. Al centro un piccolo braciere semispento, che ammorba la poca aria esistente, sullo sfondo un letto di duro cuoio di mucca, su cui ci sediamo; abituati presto all’oscurità notiamo alla nostra sinistra un pertugio da cui spuntano i denti bianchi, aperti in un sorriso, della padrona di casa, accovacciata in una nicchia destinata ai bambini. Uno di questi , seduto accanto alla mamma, sfiora esitante la peluria del mio avambraccio, incuriosito da questa stranezza.
Il masai che ci ospita è orgoglioso della sua dimora, è alto, snello, dignitoso, fiero della sua vita.
Questo popolo si nutre di latte, sangue e poca carne. E’ sufficientemente longevo per la realtà in cui vive : grazie alla sua dieta mantiene una conformazione esile che lo ha preservato nei secoli dallo schiavismo, non esistono bimbi emaciati, con gli occhi infossati ed il ventre gonfio come in altre parti dell’Africa.
I Masai sono abituati alla sofferenza; i bimbi subiscono nei primi anni di vita un taglio sulle guance, cosicché ogni lacrima che versano genera bruciore e dolore. Imparano ben presto a non piangere mentre invece non manca mai loro il sorriso.
Nel villaggio è presente una piccola capanna come aula per apprendere i primi rudimenti, poi però occorre recarsi in una scuola vera. In questo caso erano 19 i chilometri da percorrere due volte al giorno, con il pericolo di un attacco di predatori; qui non c’è il lupo cattivo delle favole, ma ci sono il leopardo e il leone veri, oppure ancora si può incontrare un licaone, canide in via di estinzione che noi abbiamo successivamente scorto sulla nostra strada. Perfino la cicogna, che nella nostra fantasia porta i bambini, in realtà qui si ciba di carcasse.
Mi domando se sia giusto chiedere a questi bambini di affrontare simili difficoltà per apprendere una cultura diversa ; nel villaggio sono gli anziani a dare le nozioni ed i riferimenti importanti della loro vita.
Quando arriverà l’età dell’adolescenza, vestiti di nero e con il viso dipinto di bianco, affronteranno l’iniziazione, guidati dalla saggezza dei loro padri.
Se la cultura “giusta” secondo noi, porta poi diritto ad una favela ai margini di una città; unico indumento una t-shirt stinta da indossare fino a consunzione con scarpe da ginnastica senza stringhe, come segno di emancipazione, senza un lavoro e senza un futuro , preferisco la tradizione dei Masai, con le loro ciabatte ricavate dai copertoni delle auto, come unico approccio alla contemporaneità.
Se sviluppo significa qui contendersi pezzi di lamiera per farsi un tugurio in mezzo ad una distesa di altre catapecchie, nelle townships, meglio le capanne, dove volendo puoi ricoverare una mucca, cosa che avviene anche dalle nostre parti ,per esempio in Romania.
L’Africa è la grande spugna che ha assorbito ed assorbe tuttora la cattiva coscienza del mondo occidentale.
In Tanganica cominciarono i Tedeschi agli inizi del Novecento che, pur di sfruttare le popolazioni locali, si inventarono la tassa sulle capanne, roba che neanche Monti nei suoi momenti migliori avrebbe mai pensato. Oggi solo il 3% della ricchezza prodotta rimane alla Tanzania, nome che deriva dalla unione di Tanganica e Zanzibar, tutto il resto prende altre direzioni.
Sarebbe ora che le popolazioni locali fossero supportate al fine di creare una loro economia che li renda autonomi. Un giusto compromesso fra rispetto della tradizione e sviluppo sostenibile sarebbe la via da seguire, e non solo nel continente nero.
Se poi un solo accenno di benessere porta ad un’impennata della piaga dell’alcolismo, in un continente dove la Coca-Cola costa più della birra e il concetto di risparmio non esiste, meglio suggere sangue da una mucca, vero capitale con cui ci si nutre, si addobba la casa e si compra una moglie.
Ci sono donne europee che improvvisamente abbandonano tutto e si sposano con un Masai, l’ultimo caso un anno fa, una diciottenne finlandese, che lasciò i bagagli alla reception dell’albergo e scomparve.
Questo comportamento fa riflettere. Sicuramente sottende l’aspirazione ad una vita libera e più felice, pensiero che però è destinato presto a scontrarsi con una realtà completamente estranea e incomprensibile alla nostra mentalità occidentale; basterebbe che qualcuno chiedesse alla neo sposa di sottoporsi al rito dell’infibulazione, perché tutta l’attrattiva della vita masai si riveli per quello che è per un europeo : irrealizzabile, perché un conto è il sogno del ritorno al mito del buon selvaggio, un conto sono le rigide regole tribali di sopravvivenza.
Grandi viaggiatori come Hemingway , un secolo fa , quando incontrarono i Masai li trovarono belli, sorridenti , ospitali. Anche oggi la sensazione è la stessa, segno che poco è cambiato; le loro tradizioni sono rimaste quelle di sempre. Che sia questo il segreto della loro innata serenità e longevità?
La serenità sarà dei maschi. Non credo che le femmine infibulate siano particolarmente serene o felici.Non capisco cosa ci sia da apprezzare di una cultura che prevede che metà della popolazione sia schiavizzata dall’altra metà. Certo se uno ha in mente la possibilità di avere 20 mogli…
Dimenticavo: cosa c’entrano “rigide regole di sopravvivenza” con l’infibulazione? E’ così difficile dire che si tratta di semplice, gratuita e inutile brutalità?