Secondo la Enciclopedia Treccani il neologismo post – verità significa: “un’argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica”. Il sostantivo deriva dall’inglese post- truth e nell’ultimo decennio ne è talmente cresciuto l’uso che l’enciclopedia Oxford English Dictionary la proclamò come “parola dell’anno 2016”. Non fu causale. La scelta fu determinata dalla campagna elettorale dell’ex Presidente americano Donald Trump e dal referedum sulla Brexit svoltesi entrambe in quell’anno.
Secondo molti sostenitori di queste tesi, durante le presidenziali negli Stati Uniti e la campagna del referendum sia l’ex presidente degli Usa sia coloro che volevano l’uscita dall’Europa del Regno Unito, secondo molti sostenitori di queste tesi, fecero un ossessivo ricorso alle fake news che in qualche modo avrebbero condizionato entrambi i risultati elettorali. Per fare un solo esempio, durante la campagna referendaria, all’esterno dei bus si poteva leggere che la Gran Bretagna spendeva per l’Europa circa 350 milioni di sterline alla settimana e, secondo i sostenitori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, con quei soldi, si sarebbe potuto riformare la sanità rendendola più efficace.
Non si può, però, non citare un interessante studio effettuato da alcuni ricercatori di Stanford dal titolo “Social Media and Fake News in the 2016 Election”, realizzato in collaborazione con la New York University. Lo studio ha accertato che le televisioni furono “la fonte principale di informazioni per gli elettori di Trump con un ampio margine rispetto ai social media”. Sempre secondo quello studio, infatti, gli elettori di Trump che seguivano le notizie durante le elezioni americane del 2016 sui social media furono solo un misero 13,8% contro il restante 86,2% che seguirono la campagna elettorale attraverso TV locali, televisioni via cavo, radio, telegiornali, reti televisive ed altri mezzi di informazione. La ricerca portò addirittura qualcuno a sostenere che anche la notizia secondo la quale l’ex presidente Trump vinse le elezioni grazie alla massiccia diffusione a suo favore di fake news che circolavano sui social, era una “bufala” ovvero una fake news.
Il termine “post-truth venne usato per la prima volta, nel 1992 dal giornalista Steve Tesich sulla rivista statunitense “The Nation” e si riferiva alla falsa notizia secondo la quale Saddam Hussein era in possesso di armi batteriologiche e costituiva un grave pericolo per l’Occidente; questa “post-verità” divenne la miccia che fece esplodere, nel 1991, la prima guerra del Golfo. La giornalista Barbara Spinelli usò, per prima in Italia, il sostantivo post-verità in un articolo su Repubblica nel 2013 e che riguardava ancora la guerra del Golfo. Ma solo nel 2016, nel giro di poche settimane, la parola “post-verità” si diffuse in maniera impressionante. Secondo l’Accademia della Crusca, l’uso della parola nel 2016 rispetto al 2015 è aumentata del 2000% ed è diventata di uso comune divenetndo virale oltre ad essere diventata oggetto di analisi attraverso saggi e articoli da parte di molti esperti e giornalisti.
L’era della post – verità, in realtà è antica quanto l’essere umano e, attenzione, si rafforza con il rafforzarsi di interessi economici, finanziari e, paradossalmente, con l’indebolirsi della politica. Più la politica è debole, più questa ricorre alla “post- verità” attraverso la diffusione sistematica di fake news. Questo fenomeno si è accentuato con la fine delle ideologie politiche e il conseguente fenomeno dei forti flussi elettorali. La giornalista Gabriela Giacomella scrisse nel 2017:” l’espressione fake news è la parolina magica utilizzata per zittire il nemico, o meglio, un’arma da sfoderare quando non si sa come uscire vittoriosi da un dibattito…”.

Ma il problema è alla radice. Il pubblico crede alla “parolina magica” e si lascia orientare, convincere che ciò che ascolta non è falso ma è vero e in ogni caso, “la parolina magica” serve a diffondere dubbi ed incertezze tra il pubblico stesso. E’ impressionante ciò che ha dimostrato di recente il ricercatore del MIT di Boston, Sorosoush Vousoghi attraverso uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Science”e cioè che le fake news su Twitter si diffondono sei volte più rapidamente rispetto alle notizie vere e a loro volta la possibilità di essere ritwittate è di gran lunga superiore alle notizie vere. Le conseguenze di questo ultimo aspetto, ritwittare le fake news, lo spiega il sociologo Giovanni Boccia Artieri:” il paradigma comunicativo è mutato: non siamo più solo “oggetto” di comunicazione ma “soggetto” di questa”. Ciò significa che la comunicazione, attraverso i social è oramai diventata uno strumento di massa ma dove, ora, ciascuno dice la propria ed è un fenomeno inarrestabile perché permette a tutti il famoso quarto d’ora di notorietà ed è in grado di sviluppare, all’autore del post, un piacere simile a quello che produce la droga.
Il professor G. Riva, ordinario di psicologia della comunicazione nel suo saggio dal titolo Fake news scrive che: “progressivamente, mano a mano che il soggetto si abitua alla presenza della dopamina, sono necessari livelli sempre più elevati per mantenere il grado di piacere iniziale”. In breve, produce gli stessi effetti di una droga. Sui social il soggetto che posta una frase, un video, una foto, più like riceve più gli aumenta il proprio livello di piacere. Lo stesso soggetto tende ad aumentare sempre più la sua presenza sui social per verificare l’aumento del numero di like sull’argomento che ha postato e aumentare il piacere”.
Il giornalista e scrittore Valerio Moggia, sostiene però che “non c’è (quasi) niente di nuovo in quello che è avvenuto nel 2016”. Egli sostiene la mancanza di novità sull’epoca della post – verità. In sostanza, vi sono numerosi esempi dell’uso corrente del termine inglese “post- truth” prima del 2016, tra cui appunto quello usato nel 1992 a proposito della guerra del Golfo e un libro pubblicato nel 2004 dal titolo “Post- truth Era”: “quante volte è iniziata l’epoca della post- verità?” E sempre Valerio Moggia dichiara: “quello che è cambiato, nel 2016, è che ci siamo resi indubbiamente conto tutti dell’esistenza di un problema con radici, però solide e antichissime”.
Senza andare troppo indietro nel tempo è sufficiente ricordare che nel 1954 fu costituito, in Russia, il KGB (in italiano, Comitato per la Sicurezza Nazionale), ed uno dei compiti principali era quello di creare disinformazione. Il KGB, costituì un’apposita sezione la cui iniziale era D ovvero, era l’iniziale del termine che tradotto in italiano sta a significare Disinformazione. E i social media non esistevano: nulla di nuovo sotto il sole.
L’era della post- verità riguarda solo la politica? Assolutamente no! Anche se le fake news che si diffondono più velocemente, secondo gli studi condotti dal già citato sociologo Soroush Vosoughi, sono quelle che interessano la politica. Ma potrei citare esempi di fake news nel campo della ricerca, della medicina, dell’industria. Quanti decenni, se non un secolo, ci sono voluti per far comprendere, attraverso ricerche scientifiche, che il fumo della sigaretta è nocivo per la salute? L’industria del tabacco attraverso la “post verità” è riuscita a convincere i fumatori di sigarette, per un lungo periodo, che il fumo non fosse nocivo. Era ciò che i fumatori volevano farsi sentire dire.
Le industrie petrolifere hanno fatto di peggio. Hanno finanziato istituti di ricerca per seminare il dubbio che il surriscaldamento del pianeta non dipenda dallo sviluppo attraverso l’uso del petrolio e i suoi derivati, bensì che faccia parte di normali avvicendamenti climatici.
Uno degli aspetti importanti delle fake news è quello di puntare sulla emotività del soggetto e la sua capacità di ragionare è influenzata da questa emotività. Non c’è bisogno, insomma, di diffondere notizie false. I siti che diffondono fake news, che, secondo uno studio recente, solo in Italia sono almeno novanta, presentano notizie anche con una percentuale minima del l’1% dei contenuti falsi. Ma quel l’1% è sufficiente a far sorgere dubbi al pubblico sulla verità provata scientificamente o addirittura a stravolgerla completamente, facendo propria..
Ma cosa c’entra l’era della post – verità con i social media? Rispondo citando nuovamente Giuseppe Riva che nel suo libro “Fake News”, scrive:”la tendenza degli utenti a dedicare sempre meno attenzione ai contenuti presenti sui social – in quindici anni siamo passati in media da 12 a 8 secondi di attenzione per contenuto – e la facilità con cui è possibile modificare un contenuto digitale senza che l’utente inesperto se ne accorga, è indubbio che i social media rappresentano il contesto ideale per la creazione e la condivisione delle fake news”. Anche se non esclusivo.
Chi è vittima come può difendersi dalla post–verità che ha sostituito la verità? Gianluca Gardini, professore ordinario di Giurisprudenza, in una intervista rilasciata a Letture.org sostiene, “che certamente va tutelato il diritto di cronaca e il diritto di essere informato secondo verità” maritiene necessario un investimento serio sull’alfabetizzazione digitale dei cittadini e non ritiene condivisibile alcun tipo di controllo da parte delle Autorità “perché ridurrebbe al silenzio molte delle voci che animano la Rete”. Gabriele Ruffatti, docente di informatica, ritiene invece che “…. è necessario che venga esercitata una qualche forma di controllo inserita in un contesto democratico”.
Come possiamo constatare il problema è complesso e le convinzioni degli esperti che a vario titolo se ne occupano, sono diverse tra loro. Affrontare il problema e porre rimedi sulla post-verità, che, come abbiamo letto, non riguarda solo i social media e in un periodo in cui l’etica, la responsabilità, la verità, il senso del limite sono in agonia, ne è trascorso anche troppo.
Concludo con le dichiarazioni di Lee Mcintyre, docente di Etica presso l’Harvard Estension School e ricercatore presso il Centro di filosofia e storia dell’Università di Boston: “la post verità si può combattere e il primo passo per farlo è capire da dove proviene”. Aggiungo che per combatterla occorre avere i soggetti che sono disposti a farlo. Non è pessimismo è una semplice constatazione.