Dopo l’enorme successo di “Bohemian Rhapsody” (Bryan Singer, 2018), il film biografico dedicato a Freddie Mercury, i film dedicati ai cantanti sono diventati un filone a parte (“Rocketman” – Elton John; “Judy” – Judy Garland, “Aline” – Celine Dion), con esiti discontinui. Ne è stato realizzato (nel 2019, regista Gabriel Range e protagonista Johnny Fynn) uno anche riguardante una delle prime fasi della variopinta carriera di David Bowie: il disgraziatissimo “Stardust”, incentrato sul 1971 (l’anno del grande disco “Hunky Dory”, alla vigilia della creazione dell’alter ego Ziggy Stardust, e dell’infelice matrimonio con Angela Barnett): presa di distanze da parte degli eredi, stroncature della critica già all’anteprima del San Diego Festival 2020, incassi nulli (novemila dollari).
C’era chi stava già rimediando: Brett Morgen (già vincitore, nel 1999, dell’Oscar al miglior documentario per un film sulla boxe, “On the Ropes”) ha esplorato per quattro anni i cinque milioni di reperti (fotografie, filmati, registrazioni audio, disegni, collage) conservati dalla David Bowie Estate, per poi assemblarli in un anno e mezzo. Il frutto di un lavoro così imponente è il meraviglioso “Moonage Daydream” (dal titolo d’una canzone, contenuta in “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” del 1972, che ha anticipato di mezzo secolo tante mode culturali): un film impossibile da definire. Non è un “biopic”, né un documentario. Ha comunque scritto bene GQ: è il miglior film possibile su Bowie – considerando che un film su Bowie non è davvero possibile, dato che lui stesso era il film su di sé.
“Moonage Daydream” rappresenta bene quel che è stata l’opera di David Bowie: colore, suono, pensiero. Senza (nonostante il rigore della ricerca) incanalarsi né incasellarsi in un percorso schematico, né rinchiudersi in temi precisi, Morgen scaraventa lo spettatore in una sarabanda di immagini e musica, la quale finisce dov’era cominciata: dalle riflessioni “zen” di Bowie, tra “Blackstar” e “Hallo Spaceboy”. Si procede avanti e indietro, ricorrono frammenti di “Ziggy Stardust: the Motion Picture” (le riprese del concerto col quale, il 3 luglio 1972 all’Hammersmith Odeon di Londra, Bowie proclamò la “uccisione” di Ziggy, “messia lebbroso” e suo alter ego marziano) e di “Ricochet” (documentario di Gerry Troyna sull’ultima fase del mastodontico – e lucrosissimo – “Serious Moonlight Tour” del 1983, filmato che vede Bowie non tanto impegnato nei suoi affollatissimi concerti in Australia e Nuova Zelanda, quanto in vagabondaggi nelle già alienanti metropoli di Singapore e Hong Kong, e più rasserenanti pellegrinaggi a Bangkok).
La sua voce da attore teatrale, sempre ferma e composta, elargisce saggezza – sia che parli di religione, o delle impressioni che danno le foglie di un albero viste in momenti diversi. Se ne vedono i volti diversi, dall’extraterrestre che traumatizzò l’intero Regno Unito sfolgorando in televisione (“we may pick him up on Channel Two”) all’inquietante “Duca Bianco” che ridotto a uno scheletro tremebondo lanciò proclami deliranti, dall’affermato artista che sicuro di sé espresse una nuova visione della musica dopo il balsamico soggiorno a Berlino (buon per lui, ma per trovarla terapeutica doveva essere parecchio confuso) sino al totem alla cui adorazione, almeno dagli anni ’90, chiunque intendesse fare musica rock doveva votarsi. Appaiono le immagini che lo hanno colpito, i riferimenti culturali (anche scadenti, da Freud e Crowley sino a Burroughs e Warhol) che lo hanno plasmato, gli intervistatori con i quali si è confrontato (non sempre volentieri: è noto che fosse cordialissimo, ma la relazione con la stampa era spesso tesa – è comunque ingenerosa la figura che il montaggio del film fa fare a Russell Harty, raffigurato come un inglese medio costernato dalla stravaganza di “The Dame”), gli ammiratori: dalla ragazza disperata per non essere riuscita a sfiorarlo all’uscita d’un concerto in piena “Ziggymania”, ai fan neozelandesi cotti dal sole durante la fila per un concerto dell’era “Let’s Dance”. Trattandosi d’un film, per quanto atipico, non si disdegna la carriera cinematografica del Nostro: poche immagini del suo film migliore, “Furyo”, una del supercult “Labyrinth” e un’altra del fiasco (il film, la canzone invece resta una delle sue cose migliori) “Absolute Beginners”; alcune del pasticcio glamour “Miriam si sveglia a mezzanotte”; lunghi momenti del ruolo con il quale si è identificato maggiormente (non tanto per l’origine extraterrestre del personaggio, quanto per la devastante inquietudine che stava attraversando – oltre che per la fretta divorante di sperimentare più cose diverse possibili), “L’uomo che cadde sulla Terra”. Appare un’antologia dei suoi film preferiti, e soltanto i titoli basterebbero a scrivere un buon manuale di storia del cinema. Ci sono anche le piroette con Louise Lacavalier, somma ballerina contemporanea.
Non anticipiamo oltre, lesiniamo anche le immagini: “Moonage Daydream” dev’essere una sorpresa, un trauma, un’esperienza a parte. Si resta allibiti, commossi, di fronte al passaggio terreno e al cammino artistico di quest’uomo straordinario che le aveva un po’ tutte – il talento musicale e una voce meravigliosa, il genio poetico, l’inventiva smisurata, la dedizione fanatica al lavoro e alla creazione, la capacità di rialzarsi dopo le (tante, e nemmeno leggere) cadute, ed era persino bello come un dio; con buona pace di chi ancora lo riduce a colui che strimpellava “we can be heroes just for one day”. Se ne ha nostalgia, e se ne tiene stretto il ricordo (come se fosse morto per davvero). Forse avrebbe stonato col tono generale, però manca il suo humour, che sapeva essere micidiale.
Dopo un’anteprima a metà settembre, il film era stato annunciato in esclusiva per il 26-27-28: chi non l’abbia ancora fatto, trovi due ore e venti minuti per assistere a questa meraviglia, che induce un po’ di malinconia. Nel 1972, Bowie si faceva annunciatore e fautore d’una rivoluzione artistica, composta da musiche inaudite e immagini strabilianti; nel 2022, ci si deve accontentare del cantante dei Maneskin che chiede al Presidente della Repubblica di sensibilizzare la nazione riguardo i problemi ginecologici della sua morosa. Anche la spazzatura può essere magnifica, dice Bowie (che, pace all’anima sua, un minimo di responsabilità per le derive genderiste l’ha avuta) a un tratto. Può esserlo, non lo è sempre.