Come noto agli amici io sono profondamente liberista sotto il profilo economico e antepongo la libertà di scelta dell’individuo alle esigenze della “collettività“, impalpabile suggestione creata ed esaltata da quelli che intendono vivere sulle spalle degli altri. Ciò nondimeno, non riesco e non posso definirmi un “liberale”. Tanto per la mia storia politica personale, nata e cresciuta sotto altri lidi; quanto per la mia posizione su alcuni temi, che contrasta con i capisaldi di quella pur nobile cultura filosofica.
Il primo ambito è certamente quello dell’applicazione della giustizia: garantista sino a sentenza definitiva, io non credo – ad esempio – alla decantata funzione rieducativa della detenzione, cui piuttosto attribuisco l’esercizio di un dovuto risarcimento a favore delle vittime e della società nel suo complesso; sono e resto convinto peraltro (e nella scorsa legislatura fui l’unico, di 945 parlamentari a votare contro un verboso e presuntuoso ordine del giorno che ne auspicava la cancellazione in tutto il mondo) della opportunità della pena di morte, almeno in alcuni casi: credo che su taluni delitti contro la persona (rapimenti e stupri, ad esempio) e per gli atti di terrorismo, la società debba avere il diritto di privarsi di ingombranti presenze al proprio interno. Poi, io la applicherei anche agli uomini che calzano dei sandali, ma mi rendo conto – pur senza arrendermi – che su questo sia più difficile costruire un unanime consenso.
Ma è del secondo argomento che mi impedisce di ascrivermi alla scuola di John Locke di cui oggi intendo trattare: mi riferisco al dibattito sulla libertà di drogarsi, che per il liberale puro rientra tra quelle che non possono essere comunque conculcate. Il tema è di stretta attualità, perché nascosto (come si conviene ai vigliacchi) dalla prevalente attenzione su altri temi, il Parlamento si sta in questi giorni occupando di liberalizzare la coltivazione della cannabis, dietro l’apparentemente rassicurante slogan del “consumo personale”.
Comincio allora col dire perché, pur nel mio appassionato impegno a favore del primato per le libertà dell’individuo, ritengo che non debbano essere fatte concessioni sul tema della droga. Il ricorso all’uso di stupefacenti (quello mi basta, non apprezzando specifiche e distinzioni su occasionalità del ricorso o “pesantezza” della sostanza), segna indubitabilmente l’assuntore nel novero delle persone che, incapaci di guardare ed affrontare la realtà per come la stessa si propone, scelgono deliberatamente di alterarne la percezione, determinando nel proprio corpo e nella propria psiche una rappresentazione virtuale e fuorviante della vita. É quindi, sempre e comunque, un indice di viltà, di incapacità e di pochezza che relega i tossici, nella mia visione darwinista dell’esistenza, nel girone più infimo della già non esaltante natura umana.
Nè sono disposto a concedere giustificazione perché “al vizio si accede inconsapevoli di diventarne presto schiavi”. Già questa fesseria non reggeva ai tempi della mia adolescenza (sono trascorsi, ahimè, 4 decenni; avevo 15 anni – per intenderci – al tempo del caso Moro); figuriamoci oggi come si possa sostenere che un ragazzino, che si informa anzitempo su tutto grazie ai moderni sistemi di comunicazione ed interazione, possa essere anche parzialmente inconsapevole degli effetti scontati dell’assunzione di stupefacenti. Secondo il sempre più imbarazzante segretario del principale partito della sinistra, un sedicenne nostrano avrebbe acquisito la maturità sufficiente per scegliere da chi farsi governare, ma andrebbe compreso ed assistito (a spese degli altri, ça va sans dire) se decide di “farsi”.
Attenzione, però, a non fraintendermi: la mia ostilità non è frutto di compassione per il deviato, verso le cui sorti non mi sorge interesse alcuno; così come mai mi ha emotivamente coinvolto la narrazione di chi impegna il proprio tempo (non di rado in virtù di pubbliche sovvenzioni) per il recupero del disadattato. Il mio fastidio, piuttosto, è solidamente basato sull’esperienza che mostra come il drogato, sempre, finisca per esprimere un rischio per il proprio ambito familiare, per chi gli sta intorno e – in genere – per la società intera. Quanti delitti e quante vittime dipendono dallo stato di incoscienza o dalla necessità a delinquere di chi ha deciso di consegnarsi alla ricerca dell’estasi artificiale?
E, soprattutto, trovo odiose ed insopportabili le palesi menzogne con cui i sostenitori della liberalizzazione provano ad argomentare le loro richieste. Vediamone solo alcune:
– si dice che la “canna” è una droga leggera, non paragonabile alle sostanze più pericolose; ma è raro che si consegua una laurea senza aver frequentato con profitto le scuole elementari.
– ci raccontano che la coltivazione in proprio e l’autorizzazione all’uso personale sarebbero finalizzate a consentire l’assunzione ai malati che ne ricavano sollievo terapico; volendo ammettere (non senza fatica) che ci sia qualcuno così stupido dal credere a questa scusa, sarebbe curioso sapere da quando ai medici sia fatto divieto di somministrare ai pazienti regolari farmaci contenenti i principi della cannabis, senza che il povero infermo sia costretto a coltivarsela tra il basilico ed il rosmarino. Per non dire del falso stupore all’esito della perquisizione dei carabinieri che a Milano, pochi giorni fa, hanno scoperto diversi chili di marijuana nei retrobottega dei negozi aperti negli ultimi mesi per la “vendita di prodotti terapeutici”.
– ancora, liberalizzare significherebbe colpire il racket della droga; in altre parole, dal momento che lo stato non riesce a combattere il crimine, si depenalizza il reato. Quindi, il prossimo passo, potrebbe essere rendere leciti furti ed assassinii, con grande risparmio nell’impiego delle Forze dell’Ordine.
– E se poi, ancora, fosse vero che drogarsi sia un diritto inalienabile della persona, i cui danni non sono superiori a quelli di qualsivoglia altra attività umana, allora i sostenitori della liberalizzazione dovrebbero anzitutto pretendere l’abolizione di ogni impiego di denaro pubblico per finanziare sert, centri di assistenza, comunità di recupero e tutte le vere o presunte associazioni che – con i soldi provenienti dalle tasse altrui – corrispondono retribuzioni ed emolumenti ai professionisti dell’assistenza compassionevole.
La verità, triste ed inconfutabile, è il decadimento culturale della sinistra: nata per tutelare idee (per me comunque aberranti) come l’egualitarismo che azzera ogni merito e la lotta di classe che tanto odio ha fomentato e troppo sangue fatto versare, oggi l’unica bandiera che accomuna gli orfani di Gramsci e Togliatti, di Longo e Berlinguer, è la battaglia perché i freaks di ogni genere assumano ruoli di comando e privilegio a scapito della gente normale. Che, essendo tale, non li vota più da tempo.
Peccato solo che, pure a destra, qualcuno si ostini a non capirlo