E’ davvero speciale quest’ultimo libro di Giampiero Mughini. Non che non lo fossero i suoi precedenti. Non oso neanche pensarlo, assatanato come ammetto di essere dei suoi scritti, di ogni ordine e risma, persino abbonato seriale delle sue note strafottenti e ultracalcistiche nel genere Dagospia. Ma è speciale questo mirabile “Muggenheim” per almeno due ragioni. In primo luogo, perché non capita tutti i giorni di immergersi in una lettura così scrupolosa di libri, cataloghi, poster, riviste, plaquettes, inviti di mostre, tutte confezioni originali del Novecento, con particolare riguardo e affetto per gli anni che vanno dai cinquanta inoltrati a tutti gli ottanta, anni “fra i più ricchi della storia dell’uomo”. Gli anni in cui, spiega Mughini, “tale era la sovranità della carta nel reame della comunicazione che tutti si affidavano a lei, e talvolta ne esasperavano le valenze, pur di fare arrivare a un pubblico possibile le loro emozioni e le loro creazioni”. Quelle carte sono di per sé stesse “opere e non soltanto documentazione”. Raccoglierle e custodirne il valore è molto più di un gesto materiale e l’ossessione del collezionista. E’ un moto dello spirito, la trincea in cui si rifugia l’animo incerto e sconfortato dal tamburellante martellio dei social network.
In secondo luogo, è speciale questo libro perché riesce a intercettare la passione, non propriamente così vasta e diffusa, di chi ha dedicato gran parte della sua vita a raccogliere materiale culturale, spesso raro e “nato clandestino”, con l’avidità del lettore comune di conoscere un mondo, quello del collezionismo, scandito da un tempo grande costruttore di creatività, poesia, fotografie, tutto un genere di armoniosa bellezza che potrebbe arricchire un museo, non soltanto le biblioteche private.
Giustamente si duole l’autore del fatto che non esista un museo specificatamente dedicato ai settanta e dintorni, e che “le grandi biblioteche americane sono alla caccia spasmodica di quel materiale e ce lo stanno portando via a vagonate”. Come è avvenuto di recente con “il primo e affascinantissimo libro illustrato di Ettore Sottsass nella Torino dell’immediato dopoguerra, un libro-cimelio”, messo in catalogo dalla libreria Pontremoli di Milano e acquistato da una biblioteca americana “che ha un sito dedicato all’immane Ettorino”.
La lista degli “espropri” a stelle e strisce, tutt’altro che illeciti, di cotanta bellezza artistica e raffinata cultura, è, ahimè!, lunga e insopportabile. Sicché bisogna plaudire e inchinarsi reverenti se c’è chi, da queste parti, coltiva ancora il gusto maniacale di scavare nei fondi dei magazzini di antiquariato, di mettere le mani tra le carte ingiallite dal tempo e sacrificare il portafoglio per godere dell’emozione che possono offrire la prima edizione di un libro, un’opera d’arte segno di un’epoca, di uno stile, di una scuola, un oggetto di arredo, una illustrazione, una foto.
Superfluo dire che Giampiero Mughini è nel novero di questi inguaribili amanti della bellezza che corrobora e rende solenne, quasi sacra, la dimensione dell’arte.
Ce lo fa capire aprendo al lettore le porte di casa sua, formidabile museo di quei formidabili anni. Solo che, nel raccontare di sé e dei suoi acquisti, spesso laboriosi e ardimentosi come avviene per tutte le cose la cui ricerca diventa spasmodica e irta di imprevisti, Mughini rivela aneddoti, incontri con personaggi famosi, discussioni implacabili con vecchi amici, storie di vita ed esperienze vissute, e affonda gli artigli della critica su pezzi di storia e frammenti di cronaca di quegli anni complessi, e pure così affascinanti. Non manca di ironia, né difetta di autocritica. E’ il Mughini che conosciamo e più apprezziamo per il coraggio di dire le cose che pensa, senza girarci attorno, lo scrittore, il giornalista, lo studioso che non osserva i fatti con il dogma del pensiero unico, ma che amplia lo sguardo e affonda il ragionamento fino a scovare il senso degli accadimenti nel giudizio libero e incondizionato di ciò di cui è stato testimone, e , a volte, lui stesso protagonista.
Così scorrono capitoli intensi e sorprendenti. E fin dall’inizio Mughini fa intendere la rotta del suo incedere di scrittore tra riviste, mirabili oggetti d’antiquariato, superbe decorazioni di vasi, quadri impressionisti, pittori dadaisti, monili futuristi. Chi tra Mao con accluso libretto rosso ed Elvis Presley con acclusi i suoi fiammeggianti vinili “che primi al mondo proclamarono la sacralità del rock” è rimasto impresso nella memoria e “nelle viscere di quanti hanno avuto vent’anni tra i cinquanta e i sessanta del secolo scorso?” E’ una delle tante domande cui, dice, è persino superfluo dare una risposta, quanto essa appare scontata. Solo che Mughini la risposta la da ugualmente a modo suo: “Se è vero che le emozioni provate dalla musica rock e dalle sue filiazioni a tre o quattro successive generazioni del secondo dopoguerra sono state cento volte più vitali che non le fanfaluche sulla Rivoluzione culturale maoista che purtroppo ipnotizzavano tanti di quei ventenni e trentenni, che ne direste di mettere sui due piani di una bilancia da una parte tutto il gruppusculame del sessanta-settanta con i loro giornali e le loro parole d’ordine i loro volantini e i loro cortei, e dall’altra la vita e le opere di un personaggio quale Roberto Antoni, meglio conosciuto sui palchi musicali dei settanta-ottanta come “Freak” Antoni e talvolta come Beppe Starnazza o magari Astro Vitelli?”.
E così, di seguito, uno snocciolare di nomi, di inediti accenni, di stupefacenti carriere, spesso sconosciute ai più, ma scolpite nei percorsi culturali del tempo che fu. Così fu per Antoni che “ha scritto negli anni libri piccoli per formato e per numero di pagine ma puntuti, oltre che ricchi di grazia e di ironia e di appeal innanzitutto visivo, libri che restano per le tracce più autentiche della sua generazione e del suo tempo”. Ecco spuntare l’ironia che “è il sentiero di fuga dei romantici ai quali le cose sono andate male”. E con l’ironia la frase di Lautréamont preferita da Antoni: “Non piangete in pubblico, se siete infelici non dovete dirlo al lettore, tenetevelo per voi”.
Nella fulgida centralità culturale di Bologna, narrata con profonda dedizione, spuntano figure come quella di Filippo Scozzari, “uno dei grandi raccontatori a fumetti dell’ultimo quarto di secolo”, oltre che “scrittore formidabile, con un suo ritmo e una sua lingua personalissima” o la storia tormentata di Francesca Alinovi, trentacinquenne e affascinantissima docente del Dams, reduce da “un dibattito acceso da un suo brillante articolo sulla fotografia”, ammazzata la sera stessa nella sua casa con 47 colpi di coltello, colpi “che non erano destinati a dare la morte ma piuttosto a reiterare il dolore e il terrore”. Mortale epilogo di un gioco erotico di cui fu accusato un suo giovane amante, catturato in Spagna nel 1997 e, “dopo nove anni di carcere, durante i quali ha continuato a proclamarsi innocente, è uscito ed è tornato alla sua attività di pittore col nome d’arte Frisco”.
Nei tratti biografici, punteggiati in meticolosa rassegna, Mughini offre al lettore l’affascinante epopea dei libri d’arte, a cui tiene di più e di cui custodisce in avida passione copie autentiche e originali. La collezione dell’artista americano Richard Prince, pittore, fotografo, il primo fotografo al mondo “una cui foto è stata venduta a oltre un milione di dollari” in un’asta newyorkese del 2005. Il primissimo e leggendario libro di poesie di Aldo Palazzeschi, I cavalli bianchi, pubblicato a Firenze nel 1905 in un’elegante edizione di 100 copie “che gli aveva pagato il padre, un sarto allora rinomato nella capitale toscana”.
Ed ecco i racconti delle straordinarie aste parigine di collezioni “i cui proprietari avevano impiegato a crearle decenni e decenni di passione spasmodica e di ricerche le più ostinate”: L’illustrazione orgogliosa della stanza di “casa mia che ho denominato Archivio delle immagini femminili”. Gli anni di Modena, la città madre del Lambrusco e della Maserati, che lascia di stucco “quanto abbia covato in quegli anni interi comparti della più innovativa cultura italiana d’avanguardia”. Il ricordo di Catania “in cui vivevo” e in cui il ventiduenne Mughini fondò una rivista trimestrale, Giovane critica, “che sarebbe durata dieci anni dapprima nel modellare il Sessantotto e le sue culture e successivamente nell’avviarne la salutare revisione”.
Il colloquio con Ettore Sottsass, il maestro, l’architetto, il designer, il “non artista” che “quando io gli dico quanto mi piace un vaso in porcellana della collezione Memphis, l’Euphrates che Sottsass aveva disegnato nel 1983, e che mi pare una scultura da quanto è sorprendente e creativo, lui mi dice che mi sto sbagliando, che quello è un vaso e non una scultura, che ha un buco e che ci devono mettere i fiori”. La storia del disco-banana di un altro immaginifico, rabdomantico artista, di nome Andy Warhol, cui Mughini dedica pagine superbe. Per finire in memoriam di Carlo Dossi cui si ascrive “la vicenda editoriale più affascinate di un libro italiano del secolo scorso”, Note azzurre, pubblicato dopo la sua morte dalla moglie Carlotta e di cui il nostro conserva gelosamente una delle rare, pochissime copie, destinate da donna Carlotta agli amici del marito, “un’edizione speciale di cui ho trovato e comprato una copia mentre stavo lavorando al libro che avete in mano”.
GIAMPIERO MUGHINI
“IL MUGGENHEIM.
QUEL CHE RESTA DI UNA VITA”
(Ed. Bompiani, Milano. Pp. 313, euro 20,00