La rivoluzione francese del settecentottantanove fu cosa complessa. Terribilmente complessa. Da due secoli gli storici seri — dimentichiamo gli apologeti o i detrattori — si accaniscono e si scervellano per ritrovare una spiegazione, un senso ad un evento terribile e decisivo. Probabilmente non aveva torto Zhou enLai, il callido mandarino rosso di Mao, ha rispondere nei Settanta: «È troppo presto per formulare un giudizio»…
In ogni caso, scartando l’insopportabile manierismo postgiacobino (assolutamente insopportabile) e le lagnosità dei neo vandeani gallici e nostrani (la Pivetti è bastata e avanzata…), consigliamo la lettura dei lavori Pierre Gaxotte e di François Furet, Jean Tulard e Ghislain de Diesbach. Ricerche solide e profonde che evidenziano come — nel pieno di una tremenda crisi socio-economica — la fragilità dell’assolutismo, la crisi di un’aristocrazia e di un alto clero senza più fede e speranza, l’inadeguatezza di un brav’uomo come Luigi XVI, aprirono la strada al disastro. Un disastro evitabile, se qualcuno fosse stato all’altezza delle sfide. Purtroppo non vi era nessuno.
Il 1789, la presa della Bastiglia e tutto il resto altro furono il frutto marcio di una classe dirigente corrotta, incapace di cogliere le dinamiche sociali e interpretare le esigenze di rinnovamento della società francese. Le cause, a nostro avviso, andrebbero ricercate nel regno di Luigi XIV, il “re Sole” che abbacinò con il suo fulgore un intero secolo ma lasciò alle sue spalle solo detriti e debiti. Per risollevarsi la Francia (e l’Europa) dovettero attendere il “piccolo corso”, l’Imperatore di Austerlitz, l’uomo che offrì al mondo ordine e destino. Un discorso difficile ma assolutamente centrale che vogliamo, dobbiamo riprendere.
Ma torniamo al “mitico” 1789. Pochi, pochissimi vogliono ricordare che la rivolta della borghesia parigina fu un fatto clamoroso ma podromico all’avvento del “Terrore” giacobino. Presto la “riforma” si rivelò uno sporco affare di avvocati di provincia (Robespierre), giornalisti falliti (Marat), psicopatici (Saint Just). I moderati si ritrovarono in minoranza e i più attenti, come Talleyrand de Pèrigord, si rifugiarono all’estero. La Francia rimase preda di una frazione d’esaltati che, sfruttando abilmente i rancori della plebe — la “corte dei miracoli” parigina, la miseria del contado — e miscelando umori xenofobi e sapori illuministici, scatenarono la prima guerra franco-francese. Una guerra terribile, sanguinaria, assassina. Inutile. Al tempo stesso, una guerra di classe e di religione, scatenata da un piccolo gruppo di “eletti” assetati di potere che — per disperazione o necessità — scelsero l’ateismo come bandiera. Non a caso, un secolo e mezzo più tardi, altri matti veri come Stalin, Tito, Mao e Pol Pot replicarono in Europa e in Asia.
Non è questa, però, la sede per ripercorrere quel tempo crudele. È invece l’occasione (una buona occasione) per segnalare un evento importante e inatteso: la rappresentazione, il 30 gennaio, al Petruzzelli di Bari dell’opera di Francis Poulenc, I dialoghi delle Carmelitane. Un’opera bella e importante ma non gradita al pensiero dominante. L’ultima volta che l’opera venne rappresentata in Italia fu nel 1959 al Teatro Bellini di Catania. Poi basta.
Perché? L’opera di Poulenc — un gigante della musica del Novecento — toccava e tocca un tema scomodo. La cristianofobia. L’ateismo di Stato. L’odio. Nei Cinquanta, il maestro, con indubbio coraggio, riprese e musicò mirabilmente un lavoro di Georges Bernanos — diventato anche un film con una splendida Jeanne Moreau — imperniato sulla tragedia di un gruppo di monache carmelitane di Compiègne stritolate dal terrore giacobino.
La storia è vera, terribilmente vera: nel 1794, i giacobini decisero di estirpare ogni religione — in particolare quella cattolica, assolutamente maggioritaria, ma anche i culti protestanti e israelitici — dalla Francia e dal mondo sino allora conosciuto. Una follia che si trasformò presto in un bagno di sangue e devastazione. Chi conosce la Francia non può non aver notato le ferite inferte dai giacobini ad ogni chiesa, ad ogni monumento, ad ogni segno di fede. Ovunque. Dalla Bretagna al Var, da Saint Denis a Nantes.
Ma torniamo a Bernanos, a Poulenc. Alla rappresentazione di Bari. Ai Dialoghi delle Carmelitane. Arrestate in nome della Repubblica e della Dea Ragione, le sedici religiose, sedici donne innocue e innocenti, si rifiutarono d’abiurare la Fede dei padri e furono condannate a morte dal tribunale rivoluzionario (uno strambo consesso, formato per lo più da alcolisti e/o da preti spretati).
Il 17 luglio 1794, le monache, con i loro mantelli bianchi, sfilarono lungo le strade di Parigi sui carretti della morte; davanti al patibolo, le carmelitane si misero in ginocchio e intonarono il Veni Creator Spiritus. Gli assistenti di Charles-Henri Sanson, il boia di Parigi, vennero a cercare la prima : Suor Constance de Jésus. Era la più giovane tra di loro, una novizia. La ragazza si genuflesse davanti alla propria madre superiora per domandarle il permesso di morire. Salendo gli scalini della ghigliottina intonò il Laudate Dominum. Le quindici altre carmelitane seguirono la sua sorte. Con assoluta dignità. Mentre il sangue colava dal patibolo, la folla rimase attonita e silenziosa. Era la prima volta. I giacobini avevano perso. Non lo capirono. Poco dopo il Termidoro chiuse, con molte ambiguità, la pagina di Robespierre. Qualche anno più tardi Napoleone mise fine alla deriva e ristabilì l’ordine. Il 27 maggio 1906 Pio X beatificò le Carmelitane di Compiégne. Poi Bernanos e Poulenc.
Appuntamento a Bari, il 30 gennaio. Al Petruzzelli.
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