“Storia in Rete” indaga sulla morte di Benito Mussolini, un evento tragico e decisamente controverso, opaco. Nulla, in quei giorni tremendi, fu come i vincitori raccontarono. Per capire davvero quei fatti, finalmente è disponibile online il nuovo speciale di “Storia In Rete” dedicato agli ultimi momenti di Mussolini e della RSI.
Per la prima volta un giornale di Storia esce con una versione “premium” (200 pagine a solo € 5,90) solo in versione pdf per i lettori digitali: 20 pagine in più rispetto alla versione cartacea che sarà in edicola tra una decina di giorni al prezzo di € 9,50. Sono oltre 30 gli articoli inclusi in questa edizione “premium”: pagina dopo pagina si potranno rivivere le ore forse più drammatiche della storia italiana del XX secolo. Ore dense di tensioni e sangue ma anche di piani segreti in competizione tra loro, ricostruiti attimo per attimo anche sulla base di documenti inediti o poco conosciuti. E’ il caso, tra gli altri, del voluminoso rapporto inedito su quei giorni redatto dai servizi segreti statunitensi negli anni Sessanta, scoperto da Marino Viganò e qui descritto per la prima volta in un lungo articolo (“Mussolini e gli amerikani” a pp. 106). Tra le notizie inedite la vicenda di una ragazza, agente segreto della RSI, inviata personalmente da Mussolini oltre la linea del fronte per contattare un alto ufficiale inglese da lui conosciuto. Una missione rimasta segreta fino ad oggi e di cui resta misterioso anche il nome della giovane – e pare bellissima – donna che ne fu protagonista.
Il nuovo speciale contiene ovviamente anche molto altro e lo si potrà scoprire leggendo gli scritti di Fabio Andriola, Franco Bandini, Maurizio Barozzi, Luca Di Bella, Stefano Fabei, Luciano Garibaldi, Emanuele Mastrangelo, Paolo Simoncelli, Marino Viganò. Ricordiamo che per acquistare il nuovo speciale di Storia in Rete (versione Premium, 200 pagine, € 5,90) basta cliccare www.storiainrete.com. In anteprima, per gentile concessione dell’autore, vi proponiamo il denso — e illuminante — saggio introduttivo del direttore Fabio Andriola. Buona Lettura.
«Gli ultimi giorni di Mussolini rappresentano uno dei più intricati e meglio tutelati enigmi della Storia non solo italiana. Per concordare con questa affermazione solo in apparenza azzardata basterà leggere le non poche pagine che compongono questo speciale. L’unicità dei fatti di Dongo – e dintorni – sta nel fatto che in poche ore (meno di tre giorni) e in uno spazio geografico abbastanza ridotto si concentrarono i piani e le azioni di numerosi attori, per lo più in contrasto o per lo meno in competizione tra loro. Pochi altri enigmi storici possono vantare una simile complessità pur potendo vantare una simile massa di dati e testimoni e questo conferma che per mantenere un segreto non è necessario essere in pochi e fidati. Anzi – e quanti hanno letto l’inchiesta pubblicata da “Storia In rete” nei mesi scorsi relativa al mistero di Luigi XVII possono capire – anche in presenza di molte persone a custodia di una verità la segretezza può essere tutelata benissimo. L’iperbole è solo apparente perché non c’è niente di meno affidabile di un testimone messo a confronto con altri testimoni e quindi il caos che ne deriva produce automaticamente – e chi ne ha interesse ha solo da aumentare le testimonianze – una cortina fumogena più efficace di un dossier chiuso in una cassaforte e inaccessibile per decenni o più.
Tutto quello che gira intorno alla morte di Mussolini è più complicato di come la versione “ufficiale” (ufficiale solo perché ripetuta e ribadita in modo ossessivo da chi non aveva interesse a spiegare come siano andate davvero le cose) tende ad accreditare. E, a ben vedere, anche l’assenza di una Verità storico-giudiziale sui quei fatti rientra nel novero dei tanti misteri, ben aggrovigliati tra loro, di Dongo e dintorni. Benché quando un governo istituisce una commissione d’inchiesta non ci sia mai da aspettarsi qualcosa di decisivo è anche vero che non provarci neanche non è stato un bel segnale. E gli estremi per una commissione d’inchiesta ufficiale c’erano tutti: un Capo di Stato passato per le armi senza processo, vari ministri che subiscono la stessa sorte, documenti di rilievo internazionale scomparsi, miliardi in denaro dell’epoca e riserve auree ufficialmente svaniti nel nulla, vari civili uccisi in poche ore senza nessun capo d’imputazione preciso e senza processo (i fratelli Petacci ma anche Nicola Bombacci, il capitano Calistri e altri fucilati a Dongo) cui si aggiunsero vari altri morti tra i partigiani a guerra finita. Insomma, c’era di che farsi qualche domanda e invece, almeno a livello politico, si lasciò correre. Anche perché, è facile osservarlo, cercare di capire come fossero andate le cose voleva dire scomodare gran parte della nuova classe dirigente dell’Italia del 1945 che poi sarebbe stata classe dirigente – non solo politica ma anche economica e culturale – fino agli anni Sessanta e Settanta.
Nel 1957, con l’apertura del processo di Padova sull’Oro di Dongo, si poteva sperare in un parziale correzione di rotta ma le speranze restarono tali perché il dibattimento si arenò dopo un paio di mesi per la morte (un suicidio che destò qualche perplessità) di un giudice popolare che non poté essere rimpiazzato perché in precedenza il Tribunale non aveva pensato a predisporre una lista di sostituti. Di rimando in rimando, anno dopo anno, la cosa finì in nulla. E così non ci fu, dopo una “non Verità politica”, neanche una “Verità giudiziaria” nonostante le montagne di carte giudiziarie (documenti, memoriali, testimonianze) e di articoli di giornale. Ma c’è dell’altro ovviamente. Altre responsabilità sotto forma per lo più di omissioni. C’è stato, ad esempio, un errore di prospettiva che ha finito per falsare ogni approccio teso a fare chiarezza su quei giorni. All’interno della storia della RSI le vicende degli ultimi giorni della Repubblica di Mussolini e del suo stesso fondatore sono state per decenni costrette in un angolo formato da un lato dalla miopia un po’ snobbistica della storiografia e dall’altro da una sovraesposizione di alcuni temi – su tutti l’infinita querelle sulla morte di Mussolini – temi che pur non trascurabili hanno finito per oscurarne altri non riuscendo al tempo stesso ad assumere una dimensione storica e logica solida e credibile. In
altri termini, il focus sulla morte di Mussolini e della Petacci (di per sé non certo secondario) ha finito per coprire molto altro impedendo, ad esempio, di capire che quelle morti erano la conseguenza diretta – anche se non necessariamente consequenziale e voluta – di scelte e piani decisi a molta distanza. Geograficamente ma anche temporalmente. I mille fili che si intrecciarono a fine aprile 1945 sul Lago di Como in più di un caso venivano, in tutti i sensi, da lontano. Per scioglierli, venute meno la Politica e la Giustizia, bisognava guardare al mondo della Cultura e a quello del Giornalismo. Il primo, di fatto, non ha mai risposto mentre il secondo lo fatto anche troppo.
Solo dagli anni Novanta, quando un De Felice ormai declinante iniziò a mettere mano all’ultima parte della sua biografia di Mussolini, quella appunto relativa alla RSI, il mondo dell’Accademia, gli storici di professione, ha iniziato a guardare con un minimo di attenzione a quei fatti. Un atteggiamento ancora pieno di snobbismo, limitato a pochi casi ma che comunque va segnalato perché per oltre 40 anni non c’era stato neanche quello. La scuse erano sempre quelle: la morte di Mussolini? Non ha importanza perché quel che conta – storicamente – è quello che ha fatto in vita; i documenti spariti? Favole e, comunque, quello che c’è da sapere lo sappiamo già; perché sul Lago di Como? Che domande, perché stava scappando in Svizzera… e via così. Insomma, in quei giorni non era accaduto nulla di storicamente rilevante quindi perché occuparsene? Una cecità assoluta che ben si sposava con la netta e pluridecennale volontà di settori politici, italiani e inglesi in primis, a nascondere ogni cosa, minimizzando, negando, occultando. Chi scrive ricorda ancora l’atteggiamento di sufficienza – appena mascherata da una cortesia che non riusciva a reprimere lo scetticismo – che accolse la sua relazione sul «Carteggio Mussolini-Churchill» al convegno «L’Italia in Guerra – Il sesto anno: 1945» organizzato dalla Commissione italiana di storia militare a Milano nell’ottobre 1996. Da allora di tempo ne è passato e adesso, come se niente fosse, nessuno sorride più di fronte all’ipotesi che tra Italia e Inghilterra siano corsi accordi segreti nel 1939/1940. La cosa più surreale è che buona parte degli argomenti a sostegno di quella che è ormai considerata un’eventualità più che probabile erano già disponibili ben prima del 1995. Ma questo non è che uno dei tanti abbagli e dei tanti ritardi che il mondo accademico ha accumulato negli anni trascurando quella che sempre più appare come una evidenza. E cioè quel neanche tanto esile filo rosso che lega tre date cruciali della storia d’Italia del Novecento: il 10 giugno 1940, il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945.
A parzialissima attenuante, agli storici professionisti va riconosciuto che il loro snobbismo e la loro “distrazione” si sono nutrite del fatto oggettivo che gli ultimi giorni della RSI non eran fatti , per la loro stessa natura, per produrre molti documenti visto che i colloqui erano per lo più informali se non convulsi, le comunicazioni difficili, le decisioni da prendere urgenti e scabrose. Per cui meglio parlare che scrivere e, nel caso, distruggere quello che era stato messo nero su bianco. Un caso per tutti: il celebre incontro all’Arcivescovado, del pomeriggio del 25 aprile 1945 a Milano, tra Mussolini e alcuni rappresentanti del CLNAI. Un incontro di cui non c’è nessun resoconto ufficiale e di cui i presenti hanno dato spesso versioni contrastanti. Quindi la scarsità di documenti ha disincentivato i ricercatori messi di fronte a fonti di straordinaria povertà sia per qualità che per quantità. Non dimentichiamo, altro esempio, che sulla condanna a morte di Mussolini, ad esempio, non esistono documenti scritti, così come nessun gerarca a Dongo venne davvero interrogato e le sue risposte verbalizzate come in genere si fa; del pari molte delle decisioni prese dai fascisti tra Milano e Como e poi a Dongo non hanno mai avuto nessuna veste formale: ordini a voce, biglietti, comunicazioni telefoniche o via radio. Niente che potesse restare e che potesse fornire una minima base di certezza. In queste condizioni, inevitabilmente, l’elemento umano era destinato a prendere il sopravvento. I testimoni sono la vera spina dorsale di qualunque ricostruzione di quei giorni. Interviste, memoriali e ricordi personali, sovente neanche di prima mano e in alcuni casi decisamente tardivi, l’hanno fatta da padrone col risultato di aumentare l’incertezza e confermare quel vecchio proverbio russo che dice: «Menti come un testimone oculare».
Chi ha raccolto quello che c’era da raccogliere fin dal maggio 1945 ai giorni nostri? Quasi esclusivamente i giornalisti. Generazioni di reporter ed inchiestisti, alcuni di gran razza, si sono esercitati nel ricostruire i fatti del lago di Como. E l’hanno fatto con i mezzi del giornalismo, che per sua costituzione ha nemici tenaci: la fretta (ci vuole lo scoop e bisogna battere la concorrenza sul tempo), la scarsezza di spazio (un’inchiesta, per quanto lunga e approfondita, non potrà mai essere densa come un libro con le note), l’esperienza (tranne alcuni sporadici casi nessun giornalista ha seguito dall’inizio alla fine le vicende di Dongo per cui, spesso, mancava la conoscenza approfondita, la memoria storica, che poteva suggerire la domanda in più, la curiosità ulteriore, la verifica aggiuntiva). Ma c’era anche un indubbio vantaggio che mai nessuno storico o casa editrice avrebbe potuto mai eguagliare: allora, molto più di oggi, aveva larga diffusione il giornalismo di inchiesta fatto di molti soldi e mezzi per indagare, per muoversi, per offrire compensi a testimoni, per pagare “memoriali”, per acquisire documenti. C’è poi stata, ovviamente, anche la componente politica: sia che fossero di destra sia che fossero di sinistra molti bravi giornalisti non hanno mai trascurato di muoversi anche sull’onda della passione ideologica che, come sappiamo, in Italia è stata fortissima dal dopoguerra fino a tutti gli anni Ottanta. Non è certo un caso che chiunque voglia studiare “sulle fonti” quanto accadde tra il 25 e il 29 aprile tra Milano e Dongo e poi ancora Milano deve andare, più che in biblioteca, in emeroteca. Fu il quotidiano del PCI «L’Unità» a fornire una prima versione dei fatti già il 30 aprile 1945. Una versione – nonostante la fortuna che ha avuto negli anni – talmente colabrodo da accendere l’interesse di un grande cronista come Ferruccio Lanfranchi che, sul “Corriere della Sera”, fece le subito le pulci con una lunga inchiesta pubblicata tra il 4 e il 14 luglio dello stesso anno. Seguiranno altre inchieste anche perché l’attenzione generale inizia ad indirizzarsi sull’«Oro di Dongo», una delle tre principali direttrici di interesse della “dongologia” (le altre sono le reali circostanze della morte di Mussolini e la natura e il destino delle sue carte riservate e sparite). Questione delicata, quella dell’«Oro di Dongo» perché è presto chiaro a tutti a quale partito politico sono andati in gran parte soldi e valori trovati nella colonna Mussolini. «L’Unità» risponde – e il copione si ripeterà in futuro – con una serie di articoli – a firma “Colonnello Valerio” – pubblicati nell’ottobre 1945: qualche variazione sul tema ma la tesi di fondo resta quella. Si diffonde un altro quesito: chi è il Colonnello Valerio? Il PCI attende un anno e mezzo per rispondere e, quando lo fa, la “risposta” lascia molti più che perplessi: vedere nel ragionier Walter Audisio da Alessandria il “giustiziere di Mussolini” non riesce facile neanche oggi. Comunque, nel marzo 1947 è questa la realtà con cui ogni ricercatore deve fare i conti: ufficialmente “Colonnello Valerio” e Walter Audisio erano la stessa persona. E la “rivelazione” fu accompagnata da una terza serie di articoli – indovinate su che giornale… – che ripetevano – con qualche modifica – quanto già scritto nel 1945.
A tener viva l’attenzione, anno dopo anno, concorrono varie circostanze: gli strani viaggi di Churchill tra Lago di Como e Lago di Garda, le inchieste giornalistiche su questo o quell’aspetto, le prime testimonianze “esclusive”, l’apparire di strani personaggi come Enrico De Toma, il celebre processo De Gasperi-Guareschi e quello ancora più anomalo della primavera 1957 a Padova. Nel febbraio 1956, Franco Bandini (che aveva mosso professionalmente i primi passi proprio con Lanfranchi) su «L’Europeo» rilanciò in grande stile l’inchiesta sugli ultimi giorni di Mussolini: un’inchiesta di grande successo che sarebbe diventata, pochi anni dopo, un libro («Le ultime 95 ore di Mussolini», Sugar 1959). Gli fece eco, su «Oggi», un altro grande giornalista che avrebbe dedicato anni e qualche scoop a quei fatti: Giorgio Pisanò. Quest’ultimo, pubblicando una dichiarazione attribuita a “Sandrino”, nome di battaglia di Guglielmo Cantoni, uno dei due partigiani che avrebbero fatto la guardia a Mussolini e alla Petacci la loro ultima notte e che fu in qualche modo presente alla loro morte, si attirò subito una smentita. E quale giornale scelse Cantoni per smentire quello che Pisanò gli attribuiva? «L’Unità» del 25 febbraio 1956. Poi, a testimonianza del clima che a più di 10 anni si respirava non solo lungo il Lago di Como, Cantoni pensò bene di andare per un po’ in Svizzera.
Con qualche flessione le cose proseguirono anche negli anni Sessanta ma è nel febbraio 1973 che si assiste ad un vero cambio di passo. E’ ancora Bandini a dare il “la” con una clamorosa inchiesta pubblicata su «Storia Illustrata»: è l’inchiesta che lancia la tesi della “doppia fucilazione” (una seconda esecuzione davanti a Villa Belmonte per mascherare una morte avvenuta in precedenza, evidentemente per cause e con modalità non confessabili). Una tesi che, curiosamente, pur venendo rigettata e ridicolizzata (ma la realtà e gli studi più recenti tendono invece ad accreditarla) ha scatenato reazioni incredibilmente tempestive e articolate. Tempo pochi giorni la solita «L’Unità» scatena il giornalista Candiano Falaschi in una lunga contro-inchiesta che deve ribadire la versione del 1945. Non ci deve essere alcun dubbio e le interviste ad alcuni dei protagonisti di quei giorni dovrebbero servire a certificare la verità di partito. Curiosamente – o forse no – tra i “testimoni” non vengono inseriti – oltre a Luigi Longo che pure era stato segretario del partito fino a pochi mesi prima – né Walter Audisio né Aldo Lampredi, cioè i due principali responsabili della spedizione partita da Milano all’alba del 28 aprile per andare a Dongo. Eppure, anche se per poco, i due erano ancora vivi. A maggio 1973 l’inchiesta di Falaschi diventa un volumetto edito da “Editori Riuniti”, casa editrice controllata dal PCI. Il 20 luglio successivo Aldo Lampredi muore mentre è in vacanza in Jugoslavia. Molti anni dopo si verrà a sapere che l’anno precedente aveva consegnato ai vertici del Partito, nella persona di Armando Cossutta, una lunga relazione sui fatti di Dongo in cui fornisce dettagli dell’esecuzione di Mussolini diversi da quelli di Audisio (in particolare l’atteggiamento coraggioso di Mussolini – «Mirate al petto» – mentre Audisio lo descriveva come tremebondo e balbettante) ma, cosa in genere trascurata, polemizza aspramente proprio con Audisio di cui non apprezzava l’atteggiamento e di cui non si fidava. Non ci fu tempo per le polemiche – almeno in questo mondo – perché anche Audisio se ne andò sempre nel 1973, l’11 ottobre. Anni prima aveva fatto capire che avrebbe potuto fare uno scoop con grosse rivelazioni ma evidentemente alla fine gli mancò il coraggio.
Due morti provvidenziali perché così la marmorizzazione della “verità” gradita al PCI poteva procedere spedita e senza intoppi. Del resto in quegli anni, una rivitalizzazione del Mito della Resistenza era utile ad un Pci in forte ascesa di consensi e di peso politico e che, di fronte ad un quadro traumatico fatto di terrorismo, attentati sanguinosi, tensioni sociali e scontri di piazza, aveva interesse a ricompattare le fila di una ipotetica nuova resistenza democratica che si doveva contrapporre alle tentazioni eversive che si andavano palesando. L’uso politico della storia è passato più volte da Dongo nel secondo dopoguerra e quello degli anni Settanta è stato uno dei passaggi più convinti, rumorosi e strumentali. Quando Audisio muore è già in fase di lavorazione il film che il Partito comunista ha commissionato ad uno dei tanti registi organici, Carlo Lizzani, che nel marzo 1974 manda nelle sale il suo «Mussolini, ultimo atto». Cosa c’è meglio di un film con grossi attori internazionali (Henry Fonda, Rod Steiger, Franco Nero, Lisa Gastoni) per fissare nell’immaginario collettivo una versione che tutti sapevano fasulla? Non soddisfatto per come era stato ritratto nel film, Sandro Pertini (all’epoca Presidente della Camera dei Deputati) scrisse a Lizzani – che lo scriverà in suo libro di memorie nel 2009 –: «… e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”; ma questo non si deve dire oggi». E infatti per molto tempo si è continuato a non dirlo o a ridicolizzare chi ci provava. Per essere sicuri, nel 1975, nel trentennale della fine della Guerra Civile, si provvide a riesumare le memorie postume di Audisio, pubblicate dalla casa editrice del Pci: Teti. Titolo «In nome del Popolo italiano». Novità? Nessuna ma per fare un muro solido ci vogliono tanti mattoni e il libro di Audisio non poteva guastare. Poco dopo sarebbe uscito anche il film scandalo di Pierpaolo Pasolini, «Salò o le 120 giornate di Sodoma» e così la Rsi finì definitivamente nella categoria del Male assoluto (e perverso). Insomma, una vera e propria partita a scacchi che vedeva il Pci da una parte e un pugno di giornalisti dall’altra: ad ogni mossa di un giocatore ne seguiva invariabilmente un’altra di segno opposto. Il libro in cui Bandini articola e sviluppa la sua teoria della “doppia fucilazione” esce nel 1978 accolto, come prevedibile, da molto scetticismo e ostilità. Ma col tempo la schiera dei sostenitori di questa versione – o comunque della non attendibilità di Audisio – non farà che crescere trovando oltretutto vari sostenitori proprio tra gli ex partigiani o gli ex comunisti: di Pertini si è detto ma a lui vanno aggiunti almeno tre nomi: l’ex segretario di Palmiro Togliatti, Massimo Caprara, l’ex responsabile dell’intelligence partigiana Aminta Migliari e il comandante del plotone di Dongo Orfeo Landini.
E’ impossibile seguire la scansione di tutte le rivelazioni che si sono susseguite anche negli anni Ottanta e inizio anni Novanta. Certo è stato sorprendente, nell’aprile 1993 leggere che Urbano Lazzaro, uno dei protagonisti di Dongo, dopo 48 anni di sostanziale apatia, ora si scatenava con un libro di memorie («Dongo, mezzo secolo di menzogne», Mondadori) in cui sposava tutte le tesi più eterodosse su Dongo: “doppia fucilazione”, Oro di Dongo al Pci, carteggio Mussolini-Churchill fatto sparire, partigiani scomodi eliminati dai comunisti ecc. ecc. Ma è nel settembre 1995 che nello stagno cade il sasso più grosso. Renzo De Felice, a pochi mesi dalla morte e forse consapevole che non ce la farà mai a terminare il suo ultimo libro della biografia di Mussolini, fa uscire un libro-intervista – «Il rosso e il nero» – cui affida alcune delle conclusioni cui è giunto studiando la Rsi e gli ultimi giorni di Mussolini. L’ultimo De Felice è convinto di un coinvolgimento inglese – sia pure tramite un ufficiale italiano – nella morte di Mussolini, è convinto dell’esistenza di carteggio tra Mussolini e Churchill ed è convinto che a 50 anni dai fatti «nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontare che cosa è veramente successo fra il 27 e il 28 aprile a Giulino di Mezzegra». Probabilmente il timore di qualche rivelazione defeliciana induce, ancora una volta il Partito comunista (nel frattempo diventato Pds, cioè Partito Democratico della Sinistra) a fare l’ennesimo rilancio. Nel gennaio 1996, a poco più di quattro mesi dal libro bomba di De Felice, «L’Unità» – direttore Walter Veltroni – pubblica un documento importante e cioè la già citata relazione di Aldo Lampredi sulla sua missione a Dongo e Giulino di Mezzegra. Lampredi racconta di come Mussolini abbia affrontato con coraggio la morte – cosa che confermerà anche Moretti anche se gli farà dire altre parole – e aggiunge poche, illuminanti, parole: «Non ho parlato con nessuno del gesto finale di Mussolini e questo è l’unico scritto che lo riferisce. Non ne scriverò, ne parlerò nemmeno in avvenire, a meno che il partito non lo renda pubblico. Moretti mi ha garantito che si comporterà nello stesso modo e credo che si possa prestargli fiducia. Non so quello che possa fare Audisio». Insomma, Mussolini doveva “morire male”. Almeno fino a quando il Partito non avesse deciso diversamente.
Ma pensare che il Partito comunista sia stato – e lo siano ancora oggi i suoi eredi – il depositario assoluto dei segreti di Dongo non è corretto. In tanti sapevano e in tanti hanno contribuito a confondere le acque. Un caso emblematico è quello della gestione delle lettere e i diari di Claretta Petacci: oggetto di una caccia per anni e anni, sequestrate dalle autorità e secretate per decenni con varie motivazioni – dalla privacy al “segreto di Stato” – di colpo sono divenute a partire dalla fine del 2009 oggetto di una sfrenata attività editoriale su cui un giorno occorrerà fare una riflessione articolata. Qui basta osservare che il ritratto di Mussolini (negli anni Trenta come a Salò) che ne esce è abbastanza sconsolante, mediocre, piccolo borghese nel suo barcamenarsi tra una moglie avanti negli anni e una giovane amante gelosa e invadente che, oltretutto, gli disubbidirà per anni non distruggendo le lettere che lui le scrive pregandola ripetutamente di non lasciare tracce. Ovviamente, il Mussolini che esce dalle pagine di Claretta è monocorde: molti aspetti politici e culturali che di certo sappiamo lo coinvolsero non marginalmente sono completamente assenti. Insomma è un Mussolini che va letto con cautela, preso con le molle, contestualizzato. Ma è un Mussolini perfetto per contrastare l’altro Mussolini che esce da un’operazione editoriale ancora più discutibile che è quella, pasticciatissima, della pubblicazione dei diari – presunti – del dittatore, pubblicati poco dopo ma di cui i bene informati già sapevano tenore e contenuti. Insomma, la solita partita a scacchi dove, per una volta, non è scesa in campo «L’Unità» (il cui peso specifico è del resto in caduta libera da molti anni) ma l’immancabile schiera di storici “politicamente corretti”, decisi a mettere il proprio impegno a difesa della Storia, «attaccata da tentativi revisionisti tesi a riabilitare i despoti del passato».
Una preoccupazione che, nel maggio/giugno 2005, travolse anche alcuni “dongologi” invitati da chi scrive a partecipare al primo convegno scientifico sugli ultimi giorni della RSI (su iniziativa della Fondazione Istituto di Studi Storici Europei, ISSE, di Roma con la collaborazione dell’Archivio Centrale dello Stato, Centro Studi sulla RSI di Salò, la Fondazione Micheletti di Brescia e la Fondazione Ugo Spirito di Roma e il patrocinio dei Comuni di Salò e Dongo, delle Regioni Lazio e Lombardia e della Provincia di Brescia). Autori di libri e ricerche importanti (pochi: 3 o 4) non vollero esserci, adducendo motivazioni varie, mentre altri – non meno titolati e comunque di orientamenti diversi – accettarono di buon grado l’invito. Il convegno «Da Salò a Dongo: il dramma e l’enigma» (due distinti appuntamenti per 4 giornate di lavori complessivi) ha segnato un momento importante nella analisi degli ultimi giorni di Salò e di Mussolini ma ha anche confermato la difficoltà di una “memoria condivisa” o, per lo meno, di una pacata riflessione storica che lasci da parte giudizi morali e rivendicazioni.
Molto di quello che abbiamo accennato è sviluppato nelle pagine che seguono. E’ forse la prima volta che un periodico specializzato dedica così tanto spazio ad un tema che negli ultimi 69 anni di carta che ha preteso parecchia e non a caso questo è di gran lunga lo speciale monografico più ricco e denso dei nostri dieci anni di vita. Ci troverete notizie e riflessioni che difficilmente si possono trovare altrove e il quadro d’insieme si allontana molto dalle ricostruzioni convenzionali che ogni aprile la stampa italiana pubblica. Fateci caso. Quest’anno ma anche i prossimi. E siamo pronti a scommettere che, facendo i raffronti, sarete convinti di aver speso bene i vostri soldi».