«Il Risorgimento è una conquista degli italiani su sé stessi, prima ancora che non su gli stranieri. Nulla di più falso di quella immagine oleografica, antica ma rimessa in grande circolazione gli ultimi tempi come debba essere ragione di vanto per noi, di una Italia sempre, da secoli, fissa al pensiero dell’unità, fremente di spiriti di indipendenza, ma sempre tenuta ferma, a dispetto di ogni suo diritto, dalle sue catene»
Gioacchino Volpe
1814. L’astro di Napoleone si offusca. Dopo il disastro di Russia e la sconfitta di Lipsia l’anno precedente — la sanguinosissima “battaglia delle nazioni” — l’incredibile ventura del piccolo tenente diventato imperatore volge al termine. In pochi mesi — nonostante le disperate quanto geniali controffensive di Bonaparte — le armate della Sesta coalizione invadono la Francia. Non vi è più nulla da fare. Il 31 marzo gli alleati entrano a Parigi e il sei aprile 1814 a Fointainbleau Napoleone abdica. L’intero sistema continentale da lui costruito in un ventennio di guerre e di trattati crolla. In pochi giorni gli stati satelliti o annessi all’impero si dissolvono. Tutto cede, ovunque. Con l’eccezione dell’Italia.
Nonostante i gelidi annunci di sconfitta, il Regno Italico e il Regno di Napoli mettono in campo i loro eserciti e sono, se pur guidati da un re francese — Gioacchino Murat — o dal figlioccio dell’Imperatore — Eugenio di Beauharnais —, eserciti italiani. Malgrado l’inferiorità di numeri e mezzi i soldati del Regno Italico — reparti solidi, formati da veterani che hanno combattuto per l’Imperatore su tutti i campi di battaglia d’Europa, meravigliando con il loro valore non solo la “vecchia guardia” ma persino Napoleone in persona, e giovanissime reclute — fermano l’invasione e l’otto febbraio 1814 infliggono sul Mincio una durissima sconfitta al nemico. Per un attimo il Regno Italico — possibile nucleo di un futuro Stato italiano indipendente — sembra salvo. Un’illusione, certo, ma come ricordò Cesare Balbo “non v’era indipendenza, è vero, ma non ne furono mai speranze più vicine”.
Mentre le truppe italiche costringono gli austriaci vinti a chiedere una tregua, una misera congiura di palazzo — ordita negli ambienti della nobilità milanese — detronizza Eugenio, lo costringe ad arrendersi e cedere agli austriaci sconfitti la guida del proprio esercito vittorioso. Con la morte nel cuore, Beauharnais si congeda dai suoi uomini che bruciano nella notte le insegne tricolori dei loro reggimenti. Il giorno dopo quarantacinquemila soldati italici vengono frettolosamente incorporati nell’armata asburgica. Il primo ordine impartito dai nuovi comandanti è il divieto d’indossare coccarde verdi bianco rosse… I migliori, come Ugo Foscolo rifiutano, smettono l’uniforme e scelgono la via dell’esilio.
Ma, oltre alla lealtà dei magnati lombardi, ad Eugenio era mancato in quel primo scorcio del fatidico ‘14 l’atteso appoggio delle armate napoletane di Gioacchino Murat, il “primo cavaliere dell’Impero”. Per un calcolo contorto quanto irrealistico il cognato di Napoleone — nell’illusoria speranza di conservare il suo trono — aveva abbandonato lo schieramento bonapartista e stretto alleanza con l’Austria. “Une trahison extraordinaire” fu il commento stupefatto del grande corso…
Il mancato intervento delle truppe murattiane a fianco di quelle italiche e il loro parziale impiego contro le retroguardie francesi non bastò però ad accreditare l’antico mito della cavalleria napoleonica presso le sospettose cancellerie dei vincitori. Murat lo comprese appena pochi mesi dopo la resa di Eugenio. Ma la politica è un problema di tempi e di scelte. Dopo la fuga di Napoleone dall’esilio dell’Elba e il suo effimero quanto incredibile ritorno al potere, Gioacchino si decide: si schiera nuovamente con il cognato dichiarando guerra all’Austria. Troppo tardi per salvare il regno, giusto in tempo per salvare il proprio onore di uomo e soldato ma decisamente in anticipo per vincere la sfida politica lanciata da Rimini il 30 marzo 1815. L’appello di Murat “alla creazione di un Regno d’Italia unito e indipendente” preoccupa gli avversari ma non scuote la penisola.
Mentre si consuma l’ultima ventura napoleonica — i mitici “cento giorni” —, Murat guida la sua piccola armata al nord sperando in un’insurrezione generale contro gli austriaci, ma nessuno si muove: il proclama di re Gioacchino non convince gli italiani, ormai sfiduciati e scettici, e il condottiero deve ritirarsi. Incalzati dalla controffensiva asburgica, i napoletani si battono bravamente a Tolentino, sfiorando persino la vittoria ma alle loro spalle regna il disordine e aleggia il tradimento. Il 21 maggio ormai rassegnato Murat lascia Napoli ma i suoi soldati, dagli spalti della fortezza di Gaeta, continueranno a combattere sino all’8 agosto.
La parabola napoleonica si conclude di lì a poco. Il 18 giugno, nella piana di Waterloo, un piccolo borgo belga sino ad allora sconosciuto, i francesi sono battuti. Con onore ma senza appello. Definitivamente. Pochi giorni dopo Napoleone abdica per la seconda volta e si consegna agli inglesi, confidando nel loro fair play. Un errore. Dimentichi degli impegni presi, i britannici deportano l’ingombrante prigioniero nel più remoto dei loro possedimenti, l’isola di Sant’Elena. Ma mentre l’imperatore, ormai prigioniero veleggia verso l’esilio nell’Atlantico meridionale, ad ottobre Gioacchino sbarca in Calabria. Spera di riconquistare la corona ma, tradito e abbandonato, viene fucilato a Pizzo Calabro. Muore bene, come si conviene ad un maresciallo dell’impero. Ad un re. In Italia come in Europa, il vecchio ordine torna a regnare.
DOPO VIENNA
L’epilogo delle due esperienze statuali napoleoniche in Italia, cancella una geografia politica ma non le aspettative che quelle esperienze avevano suscitato. Bonaparte, con il suo dispotismo modernizzatore, aveva sconvolto in profondità gli antichi assetti sociali e rotto per sempre i compartimenti stagni in cui gli staterelli italiani vivacchiavano da secoli. Nulla più sarebbe stato come prima. Lo stesso tentativo di Murat, sebbene improvvisato e tragicamente fallito, ha solo anticipato un passaggio ormai irreversibile: la nascita di uno spirito nazionale. Tra i primi a comprenderlo vi fu Alessandro Manzoni che allo sfortunato Gioacchino dedicò alcuni versi, forse non splendidi ma sinceri. Prudentissimo, l’autore dei Promessi sposi avrebbe atteso più di trent’anni prima di poterli pubblicare.
Con il Congresso di Vienna l’intera penisola, nuovamente frammentata, sembra cadere in una fase di torpore e rassegnazione. L’Austria si afferma come potenza egemone sulla penisola inglobando nei suoi domini diretti il Lombardo Veneto e occupa militarmente Ferrara, Comacchio e Piacenza, nominalmente appartenenti al Papa Re. L’Italia centrale viene suddivisa tra i ducati di Modena, Parma, Lucca e il Granducato di Toscana — tutti affidati a principi di casa Asburgo — e lo Stato Pontificio. A Napoli Ferdinando di Borbone stringe un’alleanza ferrea con Vienna e diventa uno dei campioni della Santa Alleanza.
A Vienna si seppelliscono definitivamente anche le gloriose ma vetuste repubbliche oligarchiche di Venezia, Ragusa e Genova — ormai tre fossili politici — attribuendone i territori rispettivamente all’Austria (i primi due) e al Regno di Sardegna. Una mossa con cui il primo ministro austriaco principe Metternich — il raffinato architetto della Restaurazione — ingrandisce i domini di casa Asburgo sull’Adriatico e cerca d’accontentare il Piemonte, l’unica realtà statuale italiana ancora sovrana e indipendente. Per il cancelliere viennese l’incorporazione della Superba nel regno dei Savoia è la giusta compensazione per la mancata cessione a Vittorio Emanuele I della Lombardia e, al tempo stesso, è un nuovo antemurale alla mai dimenticata minaccia francese. Ma presto il Metternich fa ammenda delle sue illusioni: il piccolo stato sabaudo conserva gelosamente la sua autonomia e non rinuncia alle proprie ambizioni sulla pianura padana. Nel suo lungo rapporto del 3 novembre 1817 all’imperatore Francesco, il principe scrive : «Fra tutti i governi italiani, il Piemonte è senz’altro quello la cui amministrazione e il cui sistema politico richiedono la più viva attenzione. Dalla sua restaurazione il re di Sardegna si è incessantemente adoperato per equipaggiare il suo esercito e soprattutto per preparare i mezzi atti a portarlo prontamente ad un livello considerevole di forza, in modo del tutto sproporzionato rispetto alle finanze e alle popolazioni dei suoi Stati… È fuori di dubbio che il governo di Torino nutre delle mire ambiziose, non realizzabili che a spese dell’Austria». Un perfetto esercizio di lucidità politica.
Nel frattempo Vittorio Emanuele I prende possesso dei suoi nuovi domini tirrenici. La Liguria l’accoglie senza entusiasmo; come ogni matrimonio combinato, l’incontro tra lo spirito politico-militare dei piemontesi e quello mercantile dei genovesi è difficile ma nel tempo, come vedremo, si rivelerà fruttuoso per entrambi. In ogni caso il sovrano sabaudo — espressione di una dinastia di signori di montagna, valli e langhe — non solo ingrandisce lo stato ma si ritrova in dote uno dei principali porti del Mediterraneo dove incontra una visione imprenditoriale già moderna e una cultura marinara d’eccezione. Da Genova a Cagliari, da La Maddelena a Nizza sventola la croce sabauda. Per il Regno Sardo è dunque tempo di iniziare a pensare in grande e rivolgersi al mare, costruire finalmente una vera flotta e cercare nuovi alleati. Possibilmente non troppo vicini. Chi meglio della Gran Bretagna, la prima potenza navale del Mediterraneo? Vienna presto s’infastidisce delle manovre internazionali, per altro molto caute, di Vittorio e — in visione anti piemontese — riannoda prontamente i legami con Londra e dà nuovo impulso a Trieste e al suo porto.
Ma appena Metternich e i suoi illustri colleghi ripongono negli archivi dei ministeri gli atti del laborioso congresso di Vienna, l’Europa intera inizia a brontolare, ad agitarsi. Le rigorose regole elaborate a Vienna dai governi della Santa Alleanza — e garantite militarmente dal blocco austro-russo-prussiano — si rivelano da subito inadeguate agli occhi delle nuove generazioni del continente. Le occhiute polizie della Restaurazione, le politiche repressive dei governi e, tanto meno, le timide riforme intraprese da alcuni ministri e sovrani illuminati, non possono arginare il bisogno prepotente di cambiamento. Napoleone, dalla sua prigione spersa nell’Atlantico, vive la sua ultima ma definitiva vittoria. La più importante.
IL TEMPO DELLE SETTE
Cinque anni dopo Waterloo l’intera Europa — e non solo — è scossa da nuovi fremiti. Il fuoco s’accende sul Mediterraneo: la Spagna insorge chiedendo il ripristino della Costituzione del 1812 e poi cancellata dal re. Seguono poi il Portogallo e, di conseguenza, l’intera America centro-meridionale. Anche l’Italia s’infiamma. Tra il 1820 e il 1821 a Napoli, a Milano e persino nel Piemonte sabaudo, si scoprono congiure, scoppiano rivolte, ammutinamenti, si tentano insurrezioni. Tutte nel nome della Costituzione. E tutte falliscono. E il prezzo è alto. Centinaia di esecuzioni, numerose condanne al carcere duro, innumerevoli esili. La Santa Alleanza ristabilisce — con il pugno di ferro — il vecchio ordine. Ma le prime crepe iniziano ad aprirsi.
Ad agitarsi in Italia è il cosiddetto “movimento settario”, un confuso amalgama di associazioni più o meno segrete d’origine per lo più massonica — le più importanti saranno la Carboneria e i Sublimi Maestri Perfetti — che cercano d’interpretare e coagulare il profondo malcontento verso il sistema dominante di parte della nobiltà, del ceto intellettuale e, soprattutto, di larghe fasce della società militare post-napoleonica. Per i reduci dell’epopea imperiale, incorporati malvolentieri nelle piccole armate degli stati italiani, il presente si rivela insopportabile. Memore delle glorie napoleoniche (e degli “ascensori sociali” con cui il bonapartistismo premiava i valorosi e i meritevoli), gran parte della società militare sceglie l’opposizione. Da Napoli a Torino, le caserme si aprono alle sette e alle congiure.
Il primo segnale arriva il due luglio 1820 dal Regno delle due Sicilie. A Nola due tenenti, Michele Morelli e Giuseppe Silviati, legati alla Carboneria, si ammutinano con i lori reparti e occupano Avellino. Il moto trova l’adesione di gran parte dell’esercito napoletano, ancora pervaso di memorie murattiane, e il 7 luglio Ferdinando di Borbone deve adeguarsi e concedere l’ambita Carta. Qualche mese più tardi, il Borbone rifugiatosi in territorio austriaco, rinnega senza vergogna i propri impegni e chiede nel convegno di Lubiana l’intervento della Santa Alleanza. L’esercito austriaco invade il regno; la piccola armata napoletana guidata dall’ex murattiano Guglielmo Pepe — uno dei protagonisti del Risorgimento militare — decide di resistere ma viene sconfitta nelle gole di Antrodoco il 7 marzo del 1821. La breve stagione del costituzionalismo borbonico si conclude quel giorno.
Mentre si consuma l’esperienza napoletana e la Sicilia in nome dell’autonomismo si ribella per l’ennesima volta contro il governo di Napoli, il Regno Sardo vive una crisi drammatica, sia dinastica che politica. L’intransigenza di Vittorio Emanuele I preserva il regno da ogni influenza straniera e, in particolare, da quella austriaca ma, al tempo stesso, preclude la strada verso ogni cauto riformismo. Ormai distaccato dalla realtà il Savoia ignora o sottovaluta i fermenti che circolano, rafforzati dell’esperienza in corso nella vicina Francia di Luigi XVIII, nella ristretta società politica piemontese. Ovunque vi è fermento, insoddisfazione, ma nessuno a corte e tanto meno nel governo sembra comprendere la situazione. Con una sola significativa eccezione. Il giovane principe Carlo Alberto di Savoia Carignano, secondo nella linea di successione al trono.
In quel 1821 è l’esercito, o almeno una parte significativa d’esso, ad interpretare gli umori e a muoversi; fidandosi dell’appoggio di Carlo Alberto — tutt’altro che scontato — i giovani ufficiali della piazzaforte di Alessandria guidati da Santorre di Santarosa muovono le loro truppe per esautorare il vecchio re, insediare sul trono il nipote e da lui ottenere non solo la Costituzione — che il Carignano, concede nella sua qualità di reggente ma vincolandola all’approvazione del re legittimo — ma anche la dichiarazione di guerra all’Austria con l’obiettivo di resuscitare il defunto Regno Italico.
È un vero e proprio colpo di Stato, inserito in un progetto ancor più ambizioso e complesso e — a differenza di quello di Morelli, Silviati e Pepe — slegato da logiche localiste. Ciò nonostante il piano di Santarosa e dei suoi alleati piemontesi e lombardi, rimane un esercizio d’irrealismo. Un dato che contraddistinguerà tutte le iniziative del partito settario. Nel 1821, costringere il piccolo e isolato Regno di Sardegna ad affrontare una delle principali potenze dell’epoca sarebbe stata una tragedia politica e una follia militare. Si comprendono i motivi per cui Vittorio Emanuele I, seppur anti austriaco ma conscio dei suoi limiti personali e dei rapporti di forza internazionali, preferisca abdicare e affidare le sorti dello Stato al più determinato fratello Carlo Felice, in quel mentre residente all’estero.
Rientrato in tutta fretta il nuovo sovrano non perde tempo: in pochi giorni liquida l’insurrezione, ritira le concessioni fatte dal nipote e riorganizza l’esercito e lo Stato. Con severità. Le corti marziali comminano sentenze durissime e gran parte dei protagonisti dei moti decide di emigrare all’estero. Anche Carlo Alberto viene mandato in esilio, in Toscana e poi nelle armate controrivoluzionarie spagnole, mentre Santarosa si rifugia nella Grecia insorta dove combatte e muore. La dinastia è salva. Ma a caro prezzo. Il Piemonte conserva la propria indipendenza ma si rinchiude nel conservatorismo.
I moti piemontesi hanno un riflesso anche nella vicina Lombardia e in particolare a Milano. Nel capoluogo lombardo la Carboneria, con i suoi richiami all’Unità nazionale e i suoi rituali oscuri, colpisce la fantasia di molti giovani intellettuali, tra cui Silvio Pellico e Piero Maroncelli, già riuniti attorno al periodico Il Conciliatore. Maldestri e ingenui, i due amici si rivelano subito inadatti alle cospirazioni e cadono nella rete della polizia austriaca, che facilmente risale anche agli altri carbonari. Dimostrandosi dei “congiurati da salotto” una volta arrestati gli imputati, con pochissime eccezioni, come Silvio Moretti morto in carcere, non reggono agli interrogatori dei giudici — rigorosi ma sempre rispettosi delle norme allora in vigore — e affondano nelle contraddizioni, coinvolgendo altri con le proprie confessioni, peggiorando la propria e l’altrui posizione. Così, mentre si consuma il processo contro Pellico, Maroncelli e altri 34 settari, gli investigatori scoprono l’esistenza di una seconda struttura clandestina, la Federazione Italiana legata ai Sublimi Maestri Perfetti, decisamente più seria e in rapporti con i congiurati piemontesi. L’organizzazione, guidata dall’ambiguo magnate Federico Confalonieri — uno dei responsabili del golpe anti napoleonico del 1814 e del linciaggio del ministro bonapartista Prina —, viene rapidamente sbaragliata e altri nove settari raggiungono Pellico e Maroncelli nelle segrete dello Spielberg, il terribile carcere austriaco. Le dure condanne inflitte — una quarantina di condanne a morte, poi commutate in ergastoli, duecento condanne al carcere duro e un centinaio d’esili — spezzano in modo radicale il movimento cospirativo lombardo. Sulle sue ceneri prenderà forma il partito moderato lombardo in cui s’incontreranno giovani studiosi come Cesare Correnti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari.
L’ultimo fuoco carbonaro s’accende dieci anni dopo in Emilia e più precisamente a Modena. Ancora una volta con esiti disastrosi. I patrioti emiliani, confortati dalla caduta nel luglio 1830 del governo assolutista francese e dalla secessione belga, riprendono coraggio e progettano un’insurrezione. A guidarli è Ciro Menotti, leader della Carboneria modenese e confidente di Francesco IV d’Este. Il rapporto tra il cospiratore e il duca di Modena è costellato da lati oscuri e doppiezze: il sovrano da tempo mal sopporta l’egemonia di Vienna che li impedisce d’ingrandire i confini del suo staterello mentre Menotti è alla ricerca di un principe illuminato che patrocini le sue speranze. I due finiscono per concordare sulla possibilità di scatenare un moto popolare nelle limitrofe province settentrionali dello Stato pontificio e nel vicino Ducato di Parma — più o meno l’attuale Emilia Romagna — per poi incanalarlo in un percorso costituzionale e riunificare i territori sotto lo scettro di Francesco e la protezione di Luigi Filippo, il nuovo re costituzionale di Francia. A Parigi, in effetti, si guarda con simpatia alle trame anti austriache modenesi e il sovrano assicura, con colpevole leggerezza, alle delegazioni carbonare il suo appoggio all’insurrezione. Inizia così una tragicommedia, piena d’equivoci e menzogne, che si protrae per mesi tra Modena, Bologna e la capitale francese sino alla vigilia dell’insurrezione.
Nella notte precedente lo scoppio dei moti, il 3 febbraio 1831, il duca — spaventato dalla portata dell’evento che egli stesso ha contribuito a creare — arresta Menotti e gli altri capi e si rifugia, portandosi seco i prigionieri, nella fortezza austriaca di Mantova. La rivolta scoppia ugualmente e il moto si estende da Parma alle Marche e all’Umbria, ma la Francia non interviene e si limita a proteste diplomatiche: per monarchia orleanista la causa italiana non vale una guerra contro gli Asburgo. Rassicurati, gli austriaci reagiscono immediatamente e sbaragliano a Rimini le sparute truppe rivoluzionarie guidate dal generale Zucchi. La situazione è presto normalizzata e Francesco IV, rientrato a Modena l’8 marzo, ordina una dura repressione che culmina il 26 maggio con l’impiccagione di Ciro Menotti — custode di troppi imbarazzanti segreti — e Vincenzo Borelli.
Ormai scollegati dalla realtà i settari tentano il primo marzo anche un’invasione del Regno di Sardegna dai monti della Savoia. Ma la spedizione si rivela, una volta di più, una dimostrazione d’improvvisazione e dilettantismo. Ad Etrembières poche guardie doganali respingono oltreconfine i non eroici carbonari.
Con gli ultimi fallimenti del 1831 si chiude malinconicamente l’esperienza delle sette. La Carboneria e le altre associazioni sorelle pagano a duro prezzo innanzitutto il loro elitarismo velleitario e, soprattutto, l’inconsistenza politica di gran parte dei quadri. Per la nuova generazione post Ottocentotrenta, affascinata da Mazzini, Garibaldi o convinta dal genio di Cavour, i settari, con i loro grotteschi ritualismi, la loro confusione programmatica e, soprattutto, l’incapacità di confrontarsi e coinvolgere le fasce popolari, appariranno come dei “rivoluzionari in pantofole”. Nonostante il tributo di sangue offerto e le sofferenze patite, per i giovani patrioti i carbonari erano solo nomi ed esperienze da dimenticare. Non a caso, proprio nel 1830, gli austriaci potettero far mostra di clemenza liberando Pellico, Maroncelli e altri ex congiurati lombardi. Ridotti a dei poveri fantasmi, gli antichi cospiratori non incutevano alcun timore ma soltanto compassione e pietà. Erano dei vinti.
LA GIOVANE ITALIA E IL GIOVANE RE
Sepolto mestamente il movimento settario, negli anni Trenta dell’Ottocento entrano però in campo nuove forze, più giovani e determinate. Emergono altri protagonisti, nascono riviste e cenacoli in cui s’iniziano a tracciare progetti solidi e immaginare percorsi articolati. È il momento di Giuseppe Mazzini e del partito moderato.
Il 1831 rappresenta uno spartiacque. Come annota Gioacchino Volpe nella sua fondamentale trilogia dedicata all’Italia Moderna, il passaggio degli anni Trenta è un momento fondamentale nella narrazione risorgimentale: l’evaporazione delle sette «un amalgama di idee oscillanti, menti ancora ingombre di universalismi e astratezze di marca giacobina, speranze illusorie e deviatrici di interventi francesi», determina un salto generazionale e qualitativo.
Ma andiamo con ordine. Assieme al settarismo svanisce anche il ricordo dell’esperienza bonapartista. Waterloo è ormai lontana, Napoleone giace a Sant’Elena, l’Europa è più o meno in pace e in Italia la pax asburgica inizia a dare i suoi frutti. Il Lombardo Veneto e i satelliti collegati godono finalmente di un momento di quiete e di relativo benessere. La Restaurazione vive il suo apogeo. Eppure, proprio nel momento di massima tranquillità sociale e di relativa espansione economica, fattori nuovi e inattesi mutano ancora una volta il panorama politico italiano. In primis, la vittoria a Parigi di Luigi Filippo offre — al di là dei giudizi sull’operato del sovrano durante la crisi emiliana — un modello nuovo di monarchia costituzionale che attrae i moderati, sempre memori degli eccessi criminali del giacobinismo e diffidenti verso derive cesaristiche e militari. Per ampi settori della borghesia e della nobiltà, la Francia e la Gran Bretagna diventano i paradigmi politici ideali da contrapporre all’assolutismo asburgico. Ma in quell’Italia frammentata in piccoli e medi staterelli non vi è nessun esempio, nessuna speranza. Almeno sino al 27 aprile 1831, quando Carlo Felice di Savoia raggiunge i suoi nobili avi. Quel giorno, ancora una volta sull’orizzonte dell’ancora debole movimento nazionale, riappare il Piemonte. E soprattutto il suo nuovo re, Carlo Alberto.
Dopo anni d’oblio, il Carignano torna sulla scena italiana e questa volta da protagonista. Senza tutori, libero da alleanze e protettori stranieri. E in più Carlo Felice lascia al suo successore uno Stato non ricco ma, in linea con la tradizione sabauda, pienamente sovrano. Non è poco. In più, Carlo Alberto si ritrova un’amministrazione efficiente, un bilancio in pareggio e, soprattutto, un esercito solido e una piccola ma assai determinata — e già provata nelle “crociere” contro i pirati tripolini e algerini — flotta da guerra.
Sono dati che molti considerano. Le potenze straniere — l’Austria e la Francia e poi la Gran Bretagna — per motivi diversi s’interessano agli orientamenti del giovane sovrano: il Regno Sardo ha una proiezione, grazie alla sua posizione geopolitica, sia transalpina che mediterranea e in più conserva intatta la sua autonomia ed è slegato da ogni alleanza. Vale perciò la pena d’osservare il monarca e di valutare i suoi atteggiamenti. Con attenzione. Carlo Alberto non è, e non sarà, uno dei tanti rottami del feudalesimo che all’epoca affollano ancora il Continente ma un protagonista del suo tempo.
Sono ragionamenti che i più avvertiti esponenti dell’opposizione interna e i pochi circoli indipendentisti italiani ancora attivi dopo le tante delusioni, colgono subito. Con un fattore aggiuntivo: il carisma. Persino i sopravvissuti alle purghe del severo zio e i giovani patrioti che non perdonano al successore di Carlo Felice il “tradimento” del 1821 — e la sua lunga penitenza presso gli eserciti della Santa Alleanza —, guardano con fiducia il Savoia. L’uomo, forse suo malgrado, continua ad intrigare e affascinare. Così, appena all’indomani della sua incoronazione, Carlo Alberto diventa “l’uomo del giorno”.
Si tratta di una speranza diffusa come conferma la lettera aperta che un carbonaro deluso li indirizza nel luglio del 1831 da Marsiglia, poche settimane dopo la sua incoronazione. La missiva è in realtà un appello in cui l’anonimo estensore invitava Carlo Alberto a mettersi a capo dello schieramento unitario. Una provocazione mirata o un’ingenuità politica? Il dilemma permane a tutt’oggi. Sicura invece è la risposta assolutamente negativa del governo torinese e certo il nome dell’estensore della famosa lettera: Giuseppe Mazzini.
Figlio della solida borghesia genovese, Mazzini dopo un breve passaggio nelle file carbonare, che li costa la condanna all’esilio, si è rifugiato nella Francia di Luigi Filippo. Divenuto celebre per il suo appello al Carignano, il giovane rivoluzionario diventa presto un punto di riferimento per gli esuli italiani. Nell’estate del 1831 annuncia la nascita di una nuova organizzazione: la Giovine Italia.
A differenza delle confuse alchimie dei settari — che Mazzini dileggia e disprezza— la Giovine Italia si vuole interclassista e nazionale, indica obiettivi chiari — unità, indipendenza, repubblica — e offre un metodo: l’attivismo rivoluzionario, l’eligia del esempio “puro”, l’apologia del gesto forte capace di svegliare gli animi anche quando fallisce. Soprattutto quando fallisce. È la mistica della “rivoluzione italiana” che, con sembianze, forme e simboli diversi, segnerà — con esiti contrastanti e spesso devastanti — la nostra vicenda nazionale. Dal 1831 ad oggi.
Torniamo a Mazzini. L’uomo è notevole e infaticabile: dalle sue “centrali” in Europa — in Francia, Svizzera, Inghilterra— scrive, tesse rapporti, raccoglie fondi, organizza. Entusiasma. Sogna. Rapidamente il movimento si espande in gran parte della penisola coinvolgendo, grazie ad una efficace propaganda, non solo intellettuali e militari ma anche segmenti della piccola borghesia, artigiani e, dove c’erano, operai specializzati. Un successo certo, che però Mazzini dall’esilio sopravaluta convincendosi che l’Italia è pronta ad insorgere. Già in questa prima fase il pensatore genovese rivela i suoi limiti: animato da un “cinismo messianico” — riprendendo un sintetico giudizio di Sergio Romano — Mazzini brucia nelle sue illusioni rivoluzionarie un patrimonio umano notevole, un abbozzo di classe dirigente alternativa — migliaia di patrioti, per lo più giovani e istruiti, verranno massacrati dalle polizie asburgiche, borboniche o dalle plebi che speravano di liberare… —, e sottovaluta la questione sociale e contadina immaginando la “questione italiana” come il principio di una più vasta rivoluzione europea. Le “dure repliche della storia” non si faranno attendere.
Dagli inizi l’obiettivo primario della Giovine Italia è il Regno di Sardegna e il suo esercito, parzialmente infiltrato dai mazziniani; mentre si prepara l’insurrezione, nel 1833 un banale imprevisto segna la condanna del partito rivoluzionario. A causa di una piccola delazione — episodio che rivela la fragilità del movimento — la polizia sabauda scopre la congiura; Carlo Alberto, temendo per la compattezza delle forze armate, ordina un’indagine severa. La rete cospirativa non regge e il bilancio è pesantissimo: 77 arresti seguiti da undici sentenze capitali e altre quattordici condanne a morte inflitte in contumacia, fra cui quella di Mazzini. Due imputati si uccidono prima del processo, Antonio Boggiano e Jacopo Ruffini.
L’anno dopo il partito repubblicano cerca un’impossibile rivincita pianificando una spedizione in Savoia e il parallelo ammutinamento della flotta sarda a Genova. Il tentativo, male organizzato e peggio condotto, si risolve, come la precedente incursione carbonara, in una catastrofe. L’unico motivo per ricordare quel mesto fallimento è il ruolo nell’episodio genovese del giovane Giuseppe Garibaldi: coinvolto nella rivolta il nizzardo fugge dal regno inseguito da una condanna a morte in contumacia. Lo attende l’America del Sud. È l’inizio della straordinaria ventura umana e militare dell’eroe dei due mondi.
Dopo il terribile fiasco del 1834, Mazzini è sconfitto. Criticato da più parti e tormentato dai rimorsi — il rivoluzionario genovese non si perdonerà mai in particolare il suicidio di Ruffini, suo fraterno amico —, cerca di rilanciare l’organizzazione e fonda a Berna la Giovane Europa, abbozzo di un partito trans-continentale. Senza successo. Pur rimanendo un punto di riferimento morale e politico e nonostante il suo fascino intellettuale, Mazzini si ritroverà sempre più isolato. Mentre i suoi seguaci, come vedremo, si esauriscono in complotti sterili e avventure disastrose — lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera nel 1844, i moti milanesi del 1853 e la spedizione di Pisacane a Sapri nel 1857 e altri “fuochi” minori ma non meno deludenti —, in Italia inizia a formarsi un vasto schieramento liberale, moderato e monarchico. E il simbolo, una volta di più, è sempre Carlo Alberto.
UNA NUOVA SPERANZA
Superata l’ennesima crisi e sgominato il movimento repubblicano, il Re di Sardegna non ripete l’errore del suo predecessore ed evita l’arretramento su posizioni oscurantiste. Anzi. Sorprendendo i più, Carlo Alberto dà l’avvio ad una serie d’importanti riforme che permettono al Piemonte, primo in Italia, di superare la stagnazione economica seguita alla Restaurazione. Come sottolinea Domenico Fisichella nel suo denso saggio Il Miracolo del Risorgimento (Roma, 2010) , il regno sabaudo dopo il 1831 intraprende una vasta azione economica e sociale. In estrema sintesi si fa «breccia al sistema al protezionista, con la riduzione del dazio sul grano e con la soppressione di vincoli annonari, il che apre la via ad una temperata (poi, nel tempo, crescente) libertà nel commercio e nell’industria. Nel 1835 è decretata la libera esportazione delle sete gregge e da lì a poco sono ridotti i dazi sulle sete lavorate. Subito dopo è abolito ogni vincolo al libero sviluppo dell’industria, e questo non è solo un fatto economico che agisce su ricchezza e lavoro, ma anche un fatto morale, che alimenta spirito d’iniziativa e accesso ai mercati di nuove forze sociali. Si procede infine ad una riforma generale del tariffario doganale, con un ampio incremento di libertà economica. Anche nel mondo agrario c’è grande risveglio, con crescita rilevante di produzioni di cereali, con l’incremento dell’attività zootecnica, con lo sviluppo dei possessori di terra… Il Piemonte agrario, contemporaneamente, vuole diventare Piemonte industriale. L’esposizione del 1844 a Torino è la prima vittoria del Piemonte industriale». Accanto agli interventi in campo economico, Carlo Alberto si muove anche sul terreno istituzionale e legislativo, dando avvio a un rinnovamento graduale dell’organizzazione dello Stato. Si forma il ministero di Grazie e Giustizia, si riformano i Codici, si crea la Corte di Cassazione — libera da ogni interferenza dell’Esecutivo e dello stesso sovrano — si organizzano i primi enti territoriali. Nella lontana Sardegna vengono cancellati gli ultimi ultimi resti del feudalesimo e si da inizio alla realizzazione di una prima rete infrastrutturale.
Un capitolo a parte, sia per le sue implicazioni economiche che politiche, meriterebbe la questione ferroviaria. Cerchiamo di riassumerla. Il 3 ottobre 1839 Ferdinando di Borbone inaugura la prima strada ferrata italiana: un successo a cui però non segue uno sviluppo significativo, basti pensare che nel 1860 Napoli è collegata solo con Caserta e Salerno. Toccherà al governo unitario costruire una rete ferroviaria nel Mezzogiorno. Diversa la situazione nel Lombardo Veneto. A differenza del Borbone, il governo austriaco imposta un’efficace politica ferroviaria che ha per obiettivo la valorizzazione di Trieste e del suo porto come terminale dell’impero e, quindi, anche del Lombardo Veneto. Dopo un primo momento di disattenzione, il governo sabaudo comprende la portata della sfida e s’ingegna per recuperare il ritardo. Merito di un geniale, quanto oggi dimenticato, “futurologo”: il conte Petitti di Roreto.
L’aristocratico, personaggio certamente inconsueto per il Piemonte del tempo e già celebre per le sue battaglie per l’istruzione elementare, le riforme carcerarie e il controllo del lavoro infantile — una somma di battaglie civili tutte recepite da Carlo Alberto —, scrive un libro sulle potenzialità delle strade ferrate e impone con forza la questione animando il dibattito politico del regno. Le opinioni, inevitabilmente, divergono ma la densa recensione al libro di Petitti pubblicata nella capitale francese sulla prestigiosa Revue Nouvelle dal giovane conte Camillo Benso di Cavour convince (per convinzione o provincialismo, Parigi è sempre Parigi. Dunque …) anche i più restii. La ferrovia è il futuro. Ma non solo. Cavour nel suo saggio disegna un paesaggio moderno ma costruisce anche un progetto politico. La locomotiva non soltanto farà di «Torino una città europea, punto d’unione del nord e mezzogiorno» ma consentirà di superare «i tempi delle cospirazioni. L’emancipazione dei popoli non può essere effetto nè di un complotto nè di una sorpresa; essa è diventata la conseguenza necessaria dei progressi della civiltà cristiana, dello sviluppo dei lumi… l’Italia e la Polonia sono più di ogni paese chiamate a trarre profitto». L’Unità attraverso il progresso, la modernità per l’indipendenza. Cavour ha già chiaro il futuro.
Finalmente convinto, Carlo Alberto consente alla costruzione delle strade ferrate e, per di più, si fa promotore di una linea che partendo da Genova si dirami da Alessandria in due tronchi, uno verso Torino e l’altro verso il lago Maggiore e la Svizzera. È un’opera, per l’epoca colossale, che rilancia Genova come emporio non solo del Regno ma anche della vicina Confederazione e della Lombardia e, in prospettiva, dell’Europa continentale. Con lo stesso scopo si avviano nel 1845 i lavori per la galleria del Frèjus e quelli per la creazione di un polo meccanico-cantieristico genovese, con l’impianto a Sanpierdarena (la futura Ansaldo) di un’officina meccanica destinata alla costruzione di materiali ferroviari. Allo stesso tempo Torino, violando un vecchio accordo, rompe il monopolio austriaco del commercio del sale con la Svizzera. L’urto è inevitabile e Vienna scatena contro i piemontesi una vera e propria guerra economica alzando i dazi sui vini piemontesi. Il regno, grazie alla solidità delle sue finanze, resiste alle manovre dell’ingombrante vicino e presto la conflittualità con gli Asburgo assume una dimensione politica. Per Carlo Alberto la Santa Alleanza ormai è soltanto un ricordo.
A radicalizzare le posizioni giunge un evento inatteso: l’elezione al soglio di San Pietro nel 1846 di Giovanni Mastai Ferretti con il nome di Pio IX. La figura del nuovo pontefice con le sue posizioni moderate suscita in tutta la penisola un profondo interesse e un partito neo guelfo inizia ad immaginare una confederazione italiana guidata proprio da Vicario di Cristo. Ormai apertamente anti austriaco, Carlo Alberto segue con attenzione le mosse di Pio IX e quando le truppe imperiali occupano Ferrara, territorio pontificio, si dichiara subito disponibile a una guerra a difesa del papa re. L’incidente rientra velocemente, ma per la prima volta un sovrano italiano sfida militarmente la potenza asburgica.
Nel frattempo il governo sabaduo accetta la proposta di monsignor Giacomo Antonelli, tesoriere del governo pontificio, per la creazione della Lega doganale italiana. Il tre novembre 1847 Lo Stato della Chiesa, la Toscana e il Piemonte firmano una serie d’accordi commerciali che prevedono la libertà reciproca di commercio e navigazione, diritto per i sudditi dei rispettivi Stati di viaggiare, transitare e risiedere e una serie di esenzioni fiscali. L’irritazione austriaca è massima: l’Italia inizia a sfuggire di mano. Agli acuti diplomatici viennesi non sfugge la portata economica e finanziaria dell’operazione ne la valenza politica del patto e tanto meno s’ignora il rischio che la Lega, come Torino aspira, si trasformi in una alleanza militare in funzione anti austriaca. La tensione cresce ma, proprio quando la possibilità di una guerra preventiva contro il Regno Sardo diventa sempre più probabile, l’impossibile succede. È il Quarantotto.
LA GUERRA
Venezia, 16 marzo 1848. Un piroscafo proveniente da Trieste porta notizie incredibili: Vienna è insorta, il primo ministro Metternich è dovuto fuggire, Budapest e Praga sono in rivolta. Il giorno dopo la città di San Marco sotto la guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo insorge e proclama la repubblica. Nelle stesse ore nelle strade di Milano si alzano le prime barricate e sulla guglia più alta del Duomo s’innalza il tricolore. Iniziano le “cinque giornate” che si concludono il 22 con la ritirata delle truppe del maresciallo Radetzky verso le fortezze di Verona e Mantova. Intanto anche i ducati scacciano i principi e formano governi provvisori.
L’intero edificio imperiale vacilla e con lui l’intera Europa: a Parigi cade Luigi Filippo e a Berlino il re di Prussia Guglielmo IV è costretto a cedere e a promettere una Costituzione. E il Piemonte?
Anticipando i tempi l’8 febbraio Carlo Alberto ha annunciato la Costituzione — lo Statuto Albertino viene emanato ufficialmente un mese dopo — e addottato il tricolore con al centro lo scudo sabaudo bordato d’azzurro. Ciò nonostante il sovrano osserva con sentimenti contradditori il “grande incendio”. Da buon Savoia non ama il disordine, i moti di piazza, diffida dei democratici e, soprattutto, è conscio della ancora temibile potenza militare asburgica e, ancor di più, della fragilità politica e guerresca degli altri principi italiani.
Ma gli eventi premono. Un’ondata d’entusiasmo scuote l’intero Stivale e, per un momento, il Papa, il granduca di Toscana e, persino, il Borbone di Napoli sembrano conquistati all’idea italiana. Dopo i fatti di Milano anche il prudente partito moderato si orienta decisamente per la guerra all’Austria. Lo conferma il 23 marzo l’appello sul giornale torinese “Il Risorgimento” rivolto da Camillo Benso, conte di Cavour, al sovrano. Il tono non lascia adito ad equivoci: «l’ora suprema per la monarchia sarda è suonata…in cospetto degli avvenimenti di Lombardia e Vienna, l’esitazione, il dubbio, gli indugi non sono più possibili; essi sarebbero la più funesta delle politiche… Se la Lombardia fosse tranquilla, sarebbe follia l’affrettare i tempi e cominciare le ostilità prima d’aver radunato un esercito e preparati i mezzi d’offesa proporzionati alla forza dei nostri nemici. Ma la Lombardia è un fuoco…Nelle attuali condizioni v’è una sola politica…quella dei Federici, dei Napoleoni e dei Carli Emanueli». La decisione alla fine è presa. Carlo Alberto chiude un drammatico consiglio dei ministri convinto che «se non si dichiara guerra, lo Stato è perduto, se si dichiara, rischio il trono. A questo sono preparato». Inizia la prima guerra d’indipendenza.
La campagna comincia bene. Incalzato dalle rivolte il feldmaresciallo Radetzky si asserraglia nel “quadrilatero” — il sistema fortificato imperniato tra Verona, Legnago, Mantova e Peschiera — mentre l’esercito sardo passa all’offensiva; dopo aver varcato il Ticino, le truppe di Carlo Alberto entrano a Milano e proseguono verso il Mincio ottenendo le prime vittorie a Goito, Monzambano, Valeggio. Al loro fianco combattono le truppe pontificie del generale Durando, l’armata napoletana di Guglielmo Pepe e i corpi franchi lombardi, veneti e toscani: il loro peso militare è modesto, ma il valore politico è decisamente alto. L’Italia combatte.
Tutto sembra procedere per il meglio quando improvvisamente il 29 aprile Pio IX — timoroso di uno scisma in Austria — pronuncia un’inattesa allocuzione pacifista e ordina il ritiro dell’esercito papalino. L’impressione è enorme. Il partito neoguelfo — con il suo progetto di un’Italia confederale guidata da Roma — crolla rovinosamente assieme al mito, vero o presunto, del “pontefice liberale” e le speranze di tanti patrioti.
Intanto la guerra prosegue e il 30 aprile le armi sarde riportano una bella vittoria a Pastrengo e poi a Santa Lucia. Il momento è decisivo: parte dell’esercito austriaco è ancora impegnato in Ungheria e Boemia e una vittoria piena può ancora cambiare le sorti del conflitto. Ma in quei giorni le forze armate sabaude rivelano i loro limiti: una struttura solida, una forte combattività ma i generali appartengono ormai ad un’altra epoca. Non osano e, per di più, non colgono, come ricorda Piero Pieri nella sua fondamentale Storia militare del Risorgimento (Torino, 1962) le implicazioni profonde «d’una guerra rivoluzionaria e nazionale che avrebbe richiesto in chi era chiamato a dirigerla eminenti doti politiche e militari insieme». E ancora, in quella sfortunata campagna, l’armata sarda paga il prezzo delle purghe del 1821 e del 1833 e il mancato rinnovamento dell’Istituzione negli anni successivi.
Rapidamente la situazione precipita. Gli austriaci iniziano a riorganizzarsi e Ferdinando di Borbone coglie subito l’occasione scatenando la plebe napoletana contro i liberali. Il 15 maggio, dopo aver sciolto il parlamento appena insediato, il Borbone rompe il fronte anti asburgico e ordina la ritirata a Pepe: il vecchio soldato di Murat, come il suo collega Durando comandante dei pontefici, rifiuta e ostinatamente sceglie di continuare a combattere nonostante li manchino, come ai papalini, rinforzi e rifornimenti.
I piemontesi si ritrovano così pressoché soli davanti alla controffensiva austriaca, ma Carlo Alberto non s’arrende e prosegue la campagna e coglie il 30 maggio — grazie ai volontari universitari toscani che, sfidando forze quattro volte superiori, fermano gli austriaci a Curtatone e Montanara — un ultimo successo a Goito e a Peschiera. Ancora un’illusione. Radetsky, grazie ai rinforzi, passa all’offensiva e in un mese riprende il Veneto, tranne Palmanova, Osoppo e Venezia, e a luglio si rivolge nuovamente contro i Piemontesi e li batte duramente a Custoza costringendoli a ritirarsi. I patrioti lombardi si affidano a Garibaldi appena rientrato dal Sud America per organizzare una linea di resistenza. Il condottiero, già famoso per le sue gesta d’oltreoceano, tenta d’organizzare una “guerra di popolo” in collaborazione con l’esercito regio, ma i suoi metodi spaventano i generali e irritano il sovrano. Non se ne farà nulla. Ciò nonostante, con le sue scarse forze, Garibaldi riesce ad impegnare, distogliendole dal fronte principale, un forte contingente nemico. Un successo misconosciuto e inutile. A fine agosto l’esercito sardo si rinchiude in Milano ma non per combattere. Nella costernazione dei milanesi il sovrano invia a Radestzky — che l’accetta — una proposta d’armistizio della durata di sei settimane. Con una postilla. Le ostilità sarebbero riprese se l’Austria “non avesse concesso una pace equa e decorosa”.
Non si tratta di una formula retorica. Carlo Alberto, dopo l’evaporazione dei suoi alleati, ritorna a ragionare su logiche piemontesi piuttosto che nazionali. Si convince di poter intavolare con gli austriaci una pragmatica trattativa in stile “settecentesco” e spera che Vienna, pur di evitare i rischi e le spese di un nuovo conflitto, preferisca accordarsi e trovare, magari tramite un intervento inglese, una mediazione onorevole che comprenda delle importanti concessioni alla controparte. È un errore. Il nuovo governo imperiale ha ormai misurato i rischi delle rivolte nazionali e, al tempo stesso, non ha alcuna intenzione — come richiesto — di cedere la ricca Lombardia o/e i ducati al Piemonte sconfitto. La Gran Bretagna, preoccupata per lo status quo continentale, dimentica le simpatie filo italiane e si schiera con l’Austria.
Deluso e, al tempo stesso, incalzato dal sempre più diffuso fermento antiaustriaco, il Carignano riapre le ostilità il 20 marzo 1849. Tre giorni dopo a Novara l’esercito sardo viene travolto dagli austriaci. È una disfatta. La sera stessa Carlo Alberto abdica a favore del figlio Vittorio Emanuele e parte in esilio in Portogallo. Muore il 28 luglio ad Oporto.
IL DECENNIO DELL’ATTESA
Malgrado la “fatal Novara”, l’Italia non è doma. Anzi. Proprio nello stesso giorno della sconfitta piemontese insorge Brescia e gli austriaci devono impiegare le loro truppe migliori per piegare, dopo dieci giorni di combattimenti accaniti, la “leonessa d’Italia”. Venezia assediata resiste con Manin e l’indomabile generale Pepe sino al 24 agosto. Poi stremata dalla fame e dal colera è costretta ad innalzare, come ricorda la poesia di Arnaldo Fucinato, bandiera bianca. Ma è a Roma dove si consuma l’ultima speranza del partito rivoluzionario. Nella “città eterna”, abbandonata da Pio IX dopo l’assassinio del suo ministro Pellegrino Rossi, il 9 febbraio 1849 è proclamata la repubblica che affida le sue sorti politiche a Mazzini, nuovamente sulla scena, Saffi e Armellini — il Triumvirato — e la difesa militare a Garibaldi. La capitale è presto stretta d’assedio da contingenti spagnoli e napoletani ma la minaccia più grave arriva dalla Francia di Luigi Napoleone che invia ad aprile una spedizione al comando del generale Oudinot. Una mossa spregiudicata con cui il Bonaparte, scordando i suoi passati cospirativi, vuole accontentare il potente partito cattolico transalpino e, al tempo stesso, dimostrare che la Francia è pronta a riprendere una politica di potenza.
L’agonia della Repubblica Romana si protrae per due lunghi mesi punteggiati da innumerevoli episodi di valore. Sul Gianicolo, nelle residenze trasformate in ridotte — villa Pamphili, villa Corsini, il Vascello, villa Spada — i volontari si sacrificano e muoiono. Cadono tra gli altri Goffredo Mameli ed Enrico Dandolo. Il 3 luglio, mentre i francesi entrano in città, l’Assemblea proclama in Campidoglio una costituzione; il giorno dopo tutto è finito, la Repubblica cessa d’esistere. Garibaldi tenta, con un’epica ritirata attraverso l’Appennino, di raggiungere Venezia. Invano. Ormai braccato, il condottiero riesce a sfuggire a stento all’inseguimento da parte degli austriaci e a settembre raggiunge la Liguria da dove riprende la via dell’esilio. La rivoluzione è sconfitta.
Mentre in tutt’Italia — Da Napoli a Milano — si abbatte un nuova ondata repressiva che annienta ciò che rimane della rete clandestina mazziniana, il regno Sardo si afferma come il campione della causa nazionale. Merito innanzitutto del nuovo re, Vittorio Emanuele. Uomo molto diverso dal padre Carlo Alberto per aspetto e temperamento, Vittorio rivela da subito una spiccata sensibilità politica. Nonostante i suoi limiti caratteriali — un atteggiamento autoritario e ruvido —, intuisce che solo la via delle libertà costituzionali e della modernizzazione civile gli avrebbero permesso di porsi alla testa del moto nazionale, fino ad unificare sotto la propria corona l’intera penisola. Nella sua visione — condivisa dai moderati — la monarchia sabauda ha una duplice funzione: portatrice del cambiamento ma anche custode dell’ordine. Quindi garante di quel progresso senza avventure su cui raccogliere il consenso maggioritario della nazione.
Da subito il monarca si distingue — ignorando pressioni austriache e le manovre delle fazioni reazionarie — per la difesa dello Statuto e del tricolore che rimane l’insegna ufficiale dello Stato; al tempo stesso Vittorio, schierandosi con il primo ministro Massimo D’Azeglio, interviene bruscamente sul parlamento recalcitrante per imporre con la ratifica del trattato di pace con l’Austria, condizione fondamentale per la ripresa economica e politica. È il proclama di Moncalieri, una chiara forzatura istituzionale su cui si salda l’alleanza tra la dinastia e il partito liberale.
La strada del Savoia intreccia presto quella di un altro protagonista, il conte di Cavour. Il giovane deputato, famoso per il suo appello nel 1848 a Carlo Alberto, è uno dei ministri più brillanti del governo di D’Azeglio a cui succede nel 1852. Inizia, tra il re e il suo primo ministro, quel rapporto turbolento, talvolta tempestoso ma straordinariamente fruttuoso che contraddistinguerà quello che gli storici definiscono il “decennio dell’attesa”.
Da subito Cavour attua una politica di rapida modernizzazione dello Stato. Cavour sviluppa, isolando reazionari, clericali e mazziniani, una politica interna liberal-conservatrice capace d’assorbire personalità della sinistra moderata come Urbano Ratazzi. È il “connubio”, la prima esperienza centrista nella storia parlamentare nazionale, un’alchimia politica azzardata, spesso discutibile ma, in quel contesto storico, vincente. Forte della sua personale maggioranza parlamentare, lo statista piemontese prosegue sulla strada riformista e, nonostante le riserve di Vittorio Emanuele, affronta lo scontro con il clero sui patrimoni e i privilegi ecclesiastici. È il preludio del drammatico contenzioso che opporrà nei decenni a venire lo Stato Unitario alla Chiesa.
La seconda filiera del riformismo cavouriano è invece incentrata sullo sviluppo economico. In pochi anni la rete ferroviaria piemontese passa dagli otto chilometri del 1848 agli ottocentocinquanta del 1859 (quasi la metà delle linee in esercizio nel resto della penisola); si apre il traforo del Fréjus e viene posto il primo cavo telegrafico sottomarino che unisce la Liguria, la Corsica e la Sardegna. Nel Novarese e nel Vercellese, grazie alle canalizzazioni, più di 50mila ettari vengono finalmente irrigati razionalmente. Nel frattempo si sviluppa un sistema bancario efficiente, si stipulano trattati doganali con le maggiori potenze industriali dell’epoca, si pongono le basi per una moderna marina militare e mercantile e nel 1852 il ministro — in dichiarata contrapposizione a Trieste asburgica, primo porto dell’impero e uno dei principali scali del Mediterraneo — appoggia con convinzione la genovese “Compagnia Transatlantica per la Navigazione a Vapore” che collega lo scalo ligure con le Americhe. Per di più, in previsione del taglio del istmo di Suez, Torino inizia ad immaginare una politica africana, dimostrando un particolare interesse verso il Mar Rosso e i regni d’Abissinia. I tempi sono assolutamente prematuri per qualsiasi ipotesi coloniale — il Piemonte non può competere con le potenze imperialiste — ma già si pongono le premesse culturali e si fissano le linee geopolitiche per la futura espansione oltremare.
I risultati non tardano ad arrivare: tra il 1850 e il 1858 le esportazioni piemontesi aumentano annualmente del 10 per cento in volume e del 20 in valore, inserendo l’economia del piccolo stato nei grandi circuiti continentali, mentre la valorizzazione delle risorse locali inizia a ripagare i pesanti investimenti infrastrutturali. Come sottolinea Rosario Romeo nella sua biografia sul grande conte, «nonostante le deviazioni imposte dallo scontro con la realtà, il disegno del gruppo dirigente piemontese di fare del Piemonte il centro di aggregazione delle forze più vive della penisola, non solo in virtù della sua iniziativa politico militare ma grazie all’intensità e al livello del suo progresso economico, fu in larga parte coronato da successo».
Di fronte ad un simile attivismo, «l’Austria risponde con una lega doganale con i ducati e con la Toscana, riproponendo lo schema di “adriaticizzazione” del commercio italiano che era già emerso nei primi anni Quaranta. Contemporaneamente, tra il 1852 ed il 1853, il Lloyd Triestino completa la sua opera di penetrazione, istituendo o rafforzando le linee adriatiche e mediterranee, quelle sul Po ed anche nei laghi alpini» (Giulio Melinato Cavour e Trieste Percorsi, politica e commerci nel Risorgimento, Trieste 2010). La sopita ma mai interrotta guerra commerciale tra Piemonte e Austria prende nuovo vigore. Il Regno Sardo — rafforzato dall’interesse britannico per nuova linea di penetrazione economica sul continente basata sull’efficiente sistema sabaudo — rilancia in chiave apertamente anti austriaca tutti gli elementi economici degli anni Quaranta. Non a caso, come annota Melinato la posizione centrale di Trieste — cardine del sistema infrastrutturale asburgico e primo concorrente del porto genovese — «ritorna più volte nei discorsi di Cavour al Parlamento di Torino: riguardo ai rapporti commerciali con la Svizzera, come snodo per le comunicazioni telegrafiche, per il commercio dei grani, ed infine come cardine delle comunicazioni per l’esercito austriaco che si stava preparando per la guerra con il Piemonte». Tra le due rive del Ticino la tensione torna a salire.
Mentre gestisce magistralmente la contrapposizione economica con l’Austria il conte intanto perfeziona il suo progetto. Per una possibile riscossa — inizialmente limitata all’Italia settentrionale — Cavour comprende che è necessario coinvolgere, controllandole attentamente, tutte le forze disponibili: dai federalisti agli ammiratori di Garibaldi, dai cattolici ai repubblicani delusi. Offrendo a (quasi) tutte le componenti del frammentato movimento nazionale un’alternativa politica realistica, pragmatica e, soprattutto, vincente al generoso quanto sterile agitarsi delle organizzazioni mazziniane, l’Associazione Nazionale e il Partito d’Azione. Il tragico fallimento a Milano, Mantova e Ferrara nel febbraio del ’53 dei moti insurrezionali conferma una volta di più il velleitarismo dell’attivismo rivoluzionario e consistenti segmenti della galassia patriottica iniziano a considerare con nuovi occhi l’ipotesi cavouriana-sabauda. L’anno dopo, Giuseppe Garibaldi, appena tornato dal Sud America dichiara senza imbarazzi «oggi l’Italia tutta guarda al Piemonte come il navigatore alla tramontana». Per Mazzini è un colpo durissimo .
Nonostante i loro dissidi, su un punto importante Vittorio e Cavour concordano: prima d’affrontare la questione italiana, è necessario uscire dall’isolamento internazionale. L’occasione arriva presto. Nel 1853 scoppia la guerra tra Russia e Turchia nella lontana Crimea. A difesa dei loro interessi nel Levante, Francia e Gran Bretagna intervengono al fianco degli Ottomani e il conflitto rischia d’allargarsi all’intero continente. Cavour afferra l’occasione e ottiene dal parlamento l’approvazione per l’intervento in Oriente. Il regno invia nel 1855 un contingente di diciottomila uomini al comando di La Marmora. Per l’esercito sardo, riorganizzato dal Alessandro La Marmora è uno sforzo enorme: come ricorda Pieri, la Crimea inghiotte «un quarto della fanteria, metà dei bersaglieri, un quarto dell’artiglieria, un settimo della cavalleria e un’aliquota notevole dei servizi». La campagna, accanto alle valenze politiche, rappresenta anche il primo banco di prova dell’esercito dopo la disfatta di Novara e il bilancio è più che soddisfacente. I piemontesi si battono bene e sulla Cernaia dimostrano il loro valore, ma un nemico più infido massacra le loro file, il colera. Il morbo si accanisce sui combattenti d’entrambi gli schieramenti e miete 1800 vittime nel contingente sardo, tra cui lo stesso La Marmora. Una perdita importante.
I caduti di Crimea consentono al Piemonte di assumere una dimensione internazionale. In veste di rappresentante di una (piccola) potenza vincitrice, Cavour partecipa a pieno titolo nella primavera del ’56 al Congresso di Parigi indetto dalle grandi potenze per ridiscutere la situazione continentale. È una vittoria diplomatica che nulla porta in termini immediati ma che consente al primo ministro sabaudo di porre in evidenza — e in termini nuovi — la questione italiana. Per la prima volta in un consesso europeo l’Austria è accusata di turbare gli equilibri internazionali e, a causa delle sue politiche ottuse, fomentare derive estremiste. Il colpo è ben portato e apre la porta a nuove prospettive. Al movimento nazionale — ulteriormente scosso dalla tragica fine nel Cilento della disperata spedizione di Carlo Pisacane — il conte propone un progetto articolato in due fasi. Primo punto. Se è terminato il tempo delle insurrezioni, dei colpi di mano, delle cospirazioni, non vi è più spazio per le guerre di “ingrandimento” del Piemonte. Non si può più ragionare in logiche dinastiche o regionali. È invece arrivato il momento di una vera e propria guerra di indipendenza. Secondo punto. Per realizzare e vincere questa guerra d’indipendenza sono necessarie, come ricorda Luciano Cafagna nel suo Cavour (Bologna, 2010), «una forza militare organizzata, un potere capace di negoziare alleanze all’esterno e ottenere sostegni all’interno, una capacità politica di andare per questa strada. Dopo la Crimea la monarchia piemontese offriva ora anche quest’ultimo requisito: la capacità politica». Su queste coordinate si forma la “grande convergenza” tra Stato sabaudo e lo schieramento unitarista e nasce un nuovo soggetto politico, la Società Nazionale. L’idea è vincente. Tra i primi ad aderire al progetto cavouriano vi sono Daniele Manin e Giuseppe Garibaldi, due dei principali protagonisti del’48. Nel frattempo il ministro continua ad operare sullo scenario internazionale. Con abilità e spregiudicatezza. Cavour riesce ad inserire il Piemonte nella commissione internazionale chiamata a risolvere da Parigi la remota questione dei principati di Valacchia e Moldavia (il nucleo dell’attuale Romania) contesi tra Russia, sostenuta dalla Francia, e Turchia, appoggiata dagli Inglesi e dagli austriaci. Destreggiandosi tra gli opposti interessi britannici e francesi — gli interlocutori principali del Piemonte liberale — il conte riesce a non scontentare troppo Londra e a minare i rapporti tra Parigi e Vienna. Si apre così una sottile “partita parallela” tra il Regno sardo e le potenze occidentali; dal 1858 al 1861 come ricorda Cafagna dal 1858 al 1861 «il problema di scelte tra Francia e Inghilterra si porrà più volte. Inghilterra e Francia cercavano di escludersi reciprocamente da una influenza egemonica nell’Italia in sommovimento e, lavorando su questo, si riuscì a tenerle fuori, in pratica, tutte e due». Grato dell’appoggio di Torino sul dossier balcanico, Napoleone III, sempre più insofferente dello status quo continentale, inizia ad osservare con crescente interesse la situazione italiana. Il referente del Bonaparte non può che essere l’astuto piemontese: i due s’incontrano segretamente nel luglio 1858 nella stazione termale di Plombièrs. In quella sede l’imperatore dei francesi concorda con il ministro piemontese un’alleanza militare e, in caso di vittoria sull’Austria, il futuro assetto geopolitico della penisola: i due prevedono un regno dell’Alta Italia per Vittorio Emanuele e, magari, uno al sud o al centro per un erede di Murat o un qualsiasi principe francese. Per il Papa si ipotizza la guida di una confederazione di Stati regionali e altre vaghezze. Tutto rimane nebuloso, indefinito e nulla sarà come previsto. Intanto la ruota della Storia inizia nuovamente a girare vertiginosamente.
IL REGNO D’ITALIA
Il 1859 s’annuncia da subito decisivo. Il primo gennaio Napoleone maltratta, durante il tradizionale ricevimento del corpo diplomatico, l’ambasciatore austriaco. Pochi giorni dopo, Vittorio Emanuele fa il discorso più importante della sua vita. Davanti alla Camera riunita, il sovrano pronuncia una frase storica. «Nel mentre che noi rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tanti parti d’Italia si leva verso di noi». L’effetto è enorme. Una nuova febbre bellicista pervade lo Stivale e ogni fazione, anche la più distante dai Savoia, si stringe attorno al Piemonte e al suo re. Garibaldi, ormai allontanatosi da Mazzini, offre la sua spada. Vittorio ne prende atto e lo ringrazia. Ma non solo. Il sovrano e Cavour, memori degli errori di Carlo Alberto, hanno compreso che questa volta bisogna finalmente unire popolo e nazione, volontariato ed esercito regio. Garibaldi è l’uomo giusto. Il 17 marzo un decreto istituisce i Cacciatori delle Alpi e il comando è affidato proprio al difensore della defunta Repubblica Romana, nominato subitamente generale. Il governo austriaco preoccupato s’interroga e denuncia alla diplomazia europea le manovre sarde; britannici e prussiani propongono una mediazione e i russi un congresso. Napoleone sembra esitare ma, ad aprile, alla corte imperiale prevale il partito interventista. Si decide per la guerra. Vienna invia un ultimatum durissimo che Torino respinge con sdegno. Inizia la seconda guerra d’indipendenza. È il 27 aprile. Appena gli austriaci varcano il Ticino, convinti d’espugnare Torino, s’impantanano nelle risaie allagate della Lomellina e del Vercellese e si arrestano davanti alla prima linea di resistenza sarda. Un impedimento momentaneo ma decisivo. Dichiarata la guerra i francesi, grazie all’efficiente rete ferroviaria del regno, entrano in campo in tempi brevissimi e il 20 maggio assieme alla cavalleria piemontese fermano l’offensiva austriaca a Montebello. Inizia la controffensiva. A fine maggio Garibaldi libera Varese e Como e punta su Bergamo e Brescia, l’esercito regio prende Palestro e il 4 giugno la Legione straniera, gli zuavi francesi e la fanteria sarda espugnano Magenta. L’otto giugno Napoleone III e Vittorio Emanuele entrano trionfalmente in Milano. Il 24 giugno gli austriaci sferrano l’ultima controffensiva tra Solferino e San Martino: 120mila asburgici affrontano 80mila francesi e 30mila piemontesi. Gli alleati vincono ma sul campo rimangono quasi 40mila caduti d’entrambi gli schieramenti. È un massacro. L’imperatore, turbato dalle perdite, incontra a Villafranca il giovane Francesco Giuseppe d’Asburgo, pure lui scosso dal sanguinoso costo della battaglia. I due sovrani decidono di sospendere immediatamente le ostilità e tracciano un accordo che sembra escludere il Piemonte da ogni trattativa. Nelle imperiali discussioni si tracciano le linee delle reciproche zone d’influenza in Italia: Vittorio Emanuele dovrà accontentarsi della Lombardia mentre l’Austria manterrà il dominio diretto sul Triveneto e la protezione sulla Toscana, i ducati e i territori pontifici. Cavour, scandalizzato, si dimette ma Vittorio accetta l’armistizio con una piccola ma importante clausola: “per ciò che ci concerne”. Il Savoia, per una volta, si dimostra più lungimirante del suo ministro. In poche settimane gli accordi di Villafranca diventano carta straccia. Il biennio ’59-‘60 segna il momento centrale nella storia del movimento nazionale. All’indomani della vittoria di Magenta l’Italia della Restaurazione si dissolve. Duchi, granduchi e legati pontifici abbandonano di gran fretta i loro palazzi e al loro posto s’insediano governi provvisori che chiedono immediatamente protezione al regno sardo. La Francia tenta d’opporsi ma Cavour, nuovamente al governo nel gennaio 1860, convince Napoleone III giocando la carta dei plebisciti: saranno i popoli a decidere sia per l’annessione di Nizza e la Savoia alla Francia sia per l’unione dell’Italia centrale al Piemonte. Napoleone acconsente malvolentieri e l’11 marzo la Toscana e l’Emilia si pronunciano a favore del congiungimento con il Piemonte. Il 2 aprile s’inaugura a Torino il Parlamento dell’Italia Settentrionale e Centrale a cui toccherà l’amaro compito di ratificare la perdita di Nizza e la Savoia. Garibaldi, eletto deputato proprio nella sua città natia, protesta duramente e con ragione ma evita rotture radicali con il sovrano e il suo ministro. Un nuovo compito attende l’eroe. Nella notte del sei maggio millecentosessantadue volontari s’imbarcano a Quarto su due piroscafi “requisiti” per l’evenienza. La polizia piemontese sembra non vedere l’assembramento e prima dell’alba le navi scivolano lungo il Tirreno verso la Sicilia. Sulla plancia c’è Giuseppe Garibaldi. Inizia così la più straordinaria ventura del Risorgimento italiano. La spedizione sbarca l’11 a Marsala e quattro giorni dopo Garibaldi, “dittatore di Sicilia a nome di Vittorio Emanuele II”, sconfigge a Calatafimi l’esercito borbonico. È una vittoria importante, riportata su un nemico ancora motivato, bene armato e superiore di numero, che galvanizza i volontari ed entusiasma i siciliani che accorrono sotto i tricolori. Il passo successivo è la conquista di Palermo, espugnata dopo tre giorni di durissimi combattimenti. La liberazione del capoluogo siciliano rappresenta anche un importante punto di svolta: mentre la classe dirigente politica e militare borbonica tracolla giunge a Palermo Giuseppe La Farina, inviato da Cavour per preparare l’annessione. Garibaldi non gradisce, teme che il conte voglia bloccarlo sull’isola ed espelle il suo plenipotenziario. Il momento è drammatico. Il sottile filo che lega Torino e i volontari rischia di spezzarsi e le flotte straniere chiudono la Sicilia. Ma improvvisamente il condottiero riceve la solidarietà da Vittorio Emanuele che confidenzialmente lo invita ad ignorare ogni ordine e a sbarcare sul continente. Intanto le diplomazie si muovono; il governo di Sua Maestà Britannica, preoccupato dall’attivismo neo napoleonico in Italia, sceglie di sostenere il Piemonte e abbandona i Borboni e l’Austria. Le navi britanniche si ritirano dallo stretto di Messina e Napoleone III abbozza. I vascelli francesi si astengono da ogni azione mentre la Marina sarda veleggia lungo le coste tirreniche. Garibaldi non perde tempo e, dopo aver sbaragliato il nemico a Milazzo, il 18 agosto i garibaldini passano lo stretto e marciano su Napoli. Per Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie è l’inizio della fine. In pochi giorni l’intera struttura dello stato borbonico crolla rovinosamente. I volontari raggiungono la capitale il 7 settembre accolti da una folla plaudente: Garibaldi è padrone dell’intero Mezzogiorno. Da questo momento le esigenze militari sono superate da quelle politiche. Il primo atto del dittatore è significativo: d’imperio tutte le navi da guerra borboniche vengono aggregate alla squadra navale del re d’Italia. Nasce la Marina Militare unitaria. È un gesto importante che rassicura il governo di Torino sulle intenzioni dell’antico repubblicano ma, negli stessi giorni, arriva a Napoli Mazzini che cerca di convincere il vecchio discepolo a proseguire l’offensiva verso Roma. Cavour si preoccupa ma il generale, sebbene non sia un fine politico, è realista quanto basta per rifiutare. A differenza del grande genovese, Garibaldi sa bene che la via per la Città Eterna non è sgombra: sul Volturno e nelle munite piazzaforti di Gaeta e Capua, Francesco lo attende per la battaglia decisiva. L’ultimo dei Borbone vuole salvare — e la salverà, pur perdendo — l’onore della dinastia e dei suoi soldati. E ancora, il Nizzardo ha ben presenti le implicazioni internazionali del momento, i rischi di un intervento francese e di una riscossa austriaca. Bruscamente Mazzini viene invitato a lasciare Napoli. Il pensatore ligure, ormai battuto, passerà gli ultimi anni a polemizzare contro Marx e i suoi seguaci. Intanto i piemontesi finalmente si muovono, le truppe regie entrano nelle Marche e battono i papalini a Castelfildardo, prendono Ancona e l’Umbria e scendono verso Napoli. Ad inizio ottobre i garibaldini sconfiggono con fatica i soldati di Francesco II che, rifiutata la resa, si asserraglia a Gaeta per un’ultima ostinata quanto valorosa resistenza. Il 26 ottobre Vittorio incontra a Teano Garibaldi che li rimette l’incarico di dittatore. Un bel gesto, ma il Savoia pecca d’eleganza e liquida l’uomo che li ha donato un regno con frasi di circostanza e qualche banalità. Garibaldi subisce l’offesa e s’imbarca, con poco entusiasmo e molti rancori, per Caprera. L’epopea dei Mille è finita, ma l’Italia unita è finalmente una realtà.
LA COSTRUZIONE DI UNA PATRIA
Il 27 marzo 1861 i deputati proclamano “per grazia di Dio e volontà della Nazione” Vittorio Emanuele II re d’Italia. Quel giorno una fase storica — scandita da tante sconfitte e delusioni, costellata da molte illusioni e troppi caduti e illuminata da poche ma decisive vittorie — termina e un nuovo pesantissimo compito attende i governanti della nuova Italia: costruire una Nazione, una Patria. Sarà un cammino difficile, irto di difficoltà. Il 26 giugno muore improvvisamente Cavour, il sapiente tessitore dell’unità nazionale. È una perdita terribile ma bisogna andare avanti. Vittorio n’è consapevole e nel ricordare il suo ministro avverte «La morte del conte Cavour è un fatto grave e grandemente da me sentito, ma tale luttuoso evento non ci arresterà un istante sul cammino della nostra vita politica. Gravi prove ci sono ancora riservate, ma se Dio mi dà la vita, le percorreremo impavidi e incolumi.». Il sovrano per primo è conscio delle sfide che attendono l’ancor fragile unità. La fusione, audace quanto rapida, ha generato inevitabilmente enormi problemi politici, economici e amministrativi. In un biennio, trentacinque anni dopo il Congresso di Vienna, tutto è cambiato. Non vi sono più fossili del feudalesimo ma nemmeno frontiere, monete, dazi, istituti che dividono — e talvolta proteggono — economie chiuse. Vi è un nuovo Stato che si vuole moderno, aperto. Forte. Ma il Risorgimento è non ancora concluso. A Roma regna ancora Pio IX, protetto dalle armi di Napoleone III e il Triveneto rimane austriaco. In più, la tragedia del brigantaggio incendia il Mezzogiorno. Per i successori di Cavour il compito è gravoso e non sempre la nuova classe dirigente unitaria si rivela all’altezza. Non a caso si preferisce affidare ai generali la repressione del brigantaggio meridionale — un’esplosiva sintesi tra ribellismo contadino, legittimismo borbonico e criminalità endemica — piuttosto che affrontare i problemi politici e sociali del fenomeno. Tra il 1861 e il 1865 l’esercito si ritrova, suo malgrado, impegnato ad affrontare un’emergenza che rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile. All’efferatezza dei briganti i soldati oppongono i metodi durissimi d’ogni esercito del tempo e lentamente il fenomeno si spegne. Le cause profonde non vengono però risolte e la questione del Mezzogiorno rimane drammaticamente aperta. Come dimostra la crisi meridionale la rapida unificazione del Paese non sempre si traduce in unità e anche le Forze Armate pagano i costi di un processo complesso. I due principali nuclei militari (quello sardo-piemontese e quello borbonico) hanno difficoltà a fondersi in uno strumento nuovo e la Terza guerra d’indipendenza sottolinea impietosamente i ritardi e le incomprensioni che affligono sia l’esercito che la marina unitaria. Nel 1866, alleata con la Prussia bismarkiana, l’Italia scende nuovamente in campo contro l’Austria, ma la preparazione è affrettata, manca l’unità di comando e l’esercito è diviso in due tronconi: il principale sul Mincio, comandato da Alfonso La Marmora, fratello del ben più brillante Alessandro caduto in Crimea, l’altro sul basso Po, guidato da Enrico Cialdini. A Garibaldi e ai suoi volontari è affidato un teatro minore. Come nel ’48 lo Stato Maggiore sottovaluta l’importanza dei corpi franchi. Gli austriaci sorprendono le divisioni di La Marmora a Custoza e le battono duramente, Cialdini deve interrompere la sua offensiva e ritirasi sino a Modena. Le incomprensioni tra i due generali si susseguono e, sebbene gli austriaci si ritirino per fortificare il fronte prussiano, si perde l’occasione per scatenare una controffensiva. Gli eventi intanto premono: il 3 luglio l’armata prussiana sbaraglia gli austriaci a Sadowa e s’inizia a discutere di pace; al governo sabaudo necessita assolutamente una vittoria da portare al tavolo delle trattative. Si ordina così alla flotta una sortita in Adriatico e l’occupazione della base austriaca di Lissa. L’azione mal organizzata e peggio condotta, si conclude con un disastro. Nelle acque dalmate l’ammiraglio Persano si scontra il 20 luglio con la squadra di Wilhem von Tegetthof, e l’audace austriaco, sebbene inferiore di numero, sconfigge in poche ore la flotta italiana. Ma in quella terribile giornata, assieme alla meritata vittoria di Tegetthoff, si consuma uno scontro fratricida tra la marineria adriatica e quella tirrenica. Mentre la nave ammiraglia “Re d’Italia” affonda, portando con sé 318 marinai, dalle tolde nemiche si leva potente il grido “viva San Marco”. Non è una beffa: gli equipaggi asburgici sono istro-veneti — sui pennoni, ai timoni e ai cannoni vi sono genti di Venezia, Trieste, Pola, Lussino, Zara, Traù, Spalato, Ragusa — e la lingua a bordo è il veneto. Lissa è una tragedia tutta italiana. A salvare l’onore delle armi nazionali è ancora una volta Garibaldi che sconfigge il 21 gli austriaci a Bezzecca e si porta alle porte di Trento. In pochi giorni potrebbe arrivare al Brennero. Ma la guerra volge al termine, Austria e Prussia firmano un armistizio e l’Italia è obbligata ad interrompere le ostilità. All’eroe vittorioso si ordina di sgomberare il Trentino. Garibaldi capisce e telegrafa “obbedisco”. Concluso — con molte amarezze — il conflitto e acquisiti il Veneto e il Friuli occidentale, rimane aperta la “questione romana”. Lo Stato pontificio, sebbene ridotto al solo Lazio, resta sotto la protezione francese; annetterlo con la forza significa per l’Italia unitaria scontrarsi con Napoleone III. Garibaldi non si rassegna e — con la tacita approvazione del governo nel novembre 1867 — guida un’incursione confidando in un’insurrezione popolare. Ma il popolo di Roma non si muove e a Mentana le truppe francesi e papaline costringono i volontari a ripiegare. Bisogna attendere il 1870 e la disfatta dei francesi nella guerra con la Prussia e il crollo del regime bonapartista. Dopo il ritiro delle ultime truppe francesi, il 20 settembre i bersaglieri irrompono nella breccia di Porta Pia e pongono fine al potere del Papa re. Roma è capitale d’Italia.
IL RISORGIMENTO. LIMITI E MERITI DI UNA RIVOLUZIONE NAZIONALE
Il compimento del processo unitario è un capolavoro politico realizzato attaverso una straordinaria combinazione di fattori tutti favorevoli: il contesto internazionale, l’abilità di Cavour e di Vittorio Emanuele, l’audacia di Garibaldi, la convergenza tra “moderati” e “rivoluzionari” in un unico — quanto effimero — partito della Nazione. E in più l’appoggio, limitato ma fondamentale, di segmenti sociali popolari. Una sintesi apparentemente perfetta che in un solo biennio realizza quella che sino alla vigilia sembrava ai più un’utopia lontana. L’Italia. Indipendente e sovrana. Ma creata la Patria, l’Italia cos’è e, per di più, chi sono gli italiani? Domande che, già all’indomani dell’Unità, si rivelano laceranti. Esauriti i trionfalismi dopo l’inaspettata vittoria, la situazione del giovane regno si rivela da subito problematica e il nuovo personale di governo, orfano di Cavour, rivela preso i suoi limiti. Drammaticamente, come sottolinea Gioacchino Volpe nella sua fondamentale trilogia dedicata all’“Italia moderna” , si scopre che «la classe dirigente italiana del suo tempo viveva troppo nell’astrazione e poco conosceva veramente il suo paese», un paese che si scopriva ogni giorno di più debole e arretrato e, in particolare nelle nuove province meridionali, terribilmente povero. Negli anni i diversi governi post unitari tentano un difficile processo di modernizzazione — accompagnandolo ad una velleitaria politica di potenza — ma i risultati restano contrastanti e il distacco tra “paese reale” e società politica aumenterno sempre più. Significativa rimane l’analisi tracciata da Pasquale Villari dopo la poco onorevole conclusione della guerra del 1866 «Di chi è la colpa? Dei capi militari, indecisi, male affiatati fra loro, con poca fede nella vittoria? Del sistema di governo? Certo si rispose; certo, anche essi sono responsabili. Ma i municipi e le province, hanno funzionato bene? E l’iniziativa privata, individuale o associata? E il commercio, l’industria, la scienza?… la nazione italiana è ancora arretratissima; e l’esercito di una nazione così fatta, per quanto sia il meglio di essa, poco si può elevare sopra di essa. Non uscirà mai un grande esercito da un paese che ha ancora pochi e cattivi artigiani, masse contadinesche analfabete e attaccate ad un’agricoltura patriarcale, matematici e ingegneri e professori poco al corrente coi progressi del sapere, una burocrazia formata o di arnesi dei vecchi governi, o di gente cresciuta fra cospirazioni ed esili, o di piemontesi coscienziosi e fedeli ma duri e pedanteschi e lenti ad inserirsi nella vita dell’Italia unificata». Una fragilità strutturale che, come Villari accenna, ha le sue ragioni soprattutto nelle caratteristiche minoritarie del movimento risorgimentale. Riprendendo Gioacchino Volpe il processo unitario rimane opera di minoranze attive che, sconfitta dopo sconfitta, hanno maturato una coscienza politica e nazionale. Ma, nonostante lo scatto generazionale che indubbiamente allarga gli orizzonti e la base sociale del movimento unitario, il Risorgimento rimane opera e speranza di pochi, per lo più appartenenti ai ceti medi. L’indipendenza nazionale è frutto di una «minoranza non numerosa, fatta di borghesi, di intellettuali, di alcuni elementi del patriziato, di artigiani guadagnati all’Italia da Mazzini. Non una classe, ma frammenti di classi diverse, dal conte di Cavour, al marinaio Giuseppe Garibaldi, dal commerciante modenese Ciro Menotti all’artigiano Amatore Sciesa ed al figlio di un modesto professionista Giuseppe Mazzini…. Ma di gran lunga prevaleva di numero la gente ostile o anche solo indifferente, inoperosa, ben chiusa nel suo vecchio guscio; la gente rassegnata ai regimi esistenti o preoccupata dei suoi interessi di casta». Estranei o avversi al partito dell’Italia non è solo gran parte della nobiltà, ormai ridotta a ceto parassitario e residuale, ma, dato ben più grave e gravido di conseguenze negative, anche la quasi totalità del clero, rinserrato nella difesa della teocrazia romana, e soprattutto il mondo contadino, ovvero la maggioranza del popolo. Su questa contrapposizione — forse inevitabile ma certamente funesta — tra una nuova aristocrazia politica e l’Italia “profonda” si fissa uno dei limiti del Risorgimento. Il movimento patriottico impegnato — attraverso cospirazioni, esili, manovre diplomatiche, guerre — a realizzare in solo quattro tumultuosi decenni l’agognata Unità si concentra sul problema nazionale e rimuove — nonostante gli avvertimenti di Gioberti e la tragica eccezione di Carlo Pisacane — il problema sociale e sottovaluta la forza del cattolicesimo. Ad errori si aggiungono errori. Se l’ostilità verso il Papa re, la conquista manu militari dei territori pontifici e persino la greve polemica anticlericale — per Garibaldi Pio IX valeva non più di “un metro cubo di letame” — e infine l’espugnazione di Roma, rientrano nel clima del tempo e nelle necessità della Storia, altro è pensare di espellere il Papa e il cristianesimo dall’Italia. Nonostante gli sforzi di Cavour e dei suoi (pochi) veri eredi, nella nuova Italia le correnti massoniche prendono il sopravvento, irrigidendo gli ambienti vaticani che “congelano” per decenni il mondo cattolico in posizioni extra parlamentari. I costi politici li paga in primis la Destra storica che si ritrova impossibilita a creare alleanze con blocchi sociali a lei omogenei. Da qui, nonostante le non pessime prove di governo, la sua impossibilità di strutturarsi come “partito della Nazione” e la conseguente involuzione oligarchica e trasformista. La “questione romana” sino al 1929 rimarrà drammaticamente irrisolta. Toccherà ad un romagnolo di poca fede ma di grande intuito politico, cinquantanove anni dopo Porta Pia, chiudere la ferita. Benito Mussolini. Ancor grave, a nostro avviso, è però l’incapacità degli unitaristi di cogliere la drammaticità del problema sociale. Negli decenni che seguirono l’Unità almeno sino a Crispi il potere politico si limita ad esprimere gli interessi della grande borghesia fondiaria e industriale settentrionale e dei latifondisti meridionali. Con il grande storico abruzzese si può affermare che «Il Risorgimento, rivoluzione politica, nulla o quasi nulla aveva mutato nei rapporti economico-sociali… per la gran massa del popolo, fatta più che altro di contadini, il Risorgimento era come non avvenuto: anche per la loro incapacità di volgerlo comunque ai loro fini. Il giudizio calzava soprattutto per i contadini meridionali». La prima conseguenza è la tragedia dell’emigrazione che spopola intere regioni del Mezzogiorno — spegnendo per consunzione gli ultimi fuochi di rivolta brigantesca — e disperde milioni di italiani nelle Americhe, in Francia o nel Levante. Nelle regioni settentrionali i ceti più umili — come testimoniano gli innumerevoli disordini contadini, ravvivati in Emilia da nostalgie estensi —, soffrono ugualmente afflitti dall’indigenza e dalla pellagra. Ma già negli anni Ottanta, dieci anni dopo Porta Pia, l’industrialismo inizia a trasformare il paesaggio sociale; in Lombardia e in Piemonte ma anche in Romagna e Liguria si forma un solido associazionismo operaio e contadino che presto scivolerà nel nascente movimento socialista o nel risorgente partito cattolico galvanizzato dalle posizioni sociali di Leone XIII. Tutto inizia a cambiare. Il governo sabaudo affronta finalmente la questione sociale e qualche buona legge viene varata e applicata. Si diffonde il mito di Umberto il “re buono” e la dinastia ritorna popolare. Le cannonate milanesi di Bava Beccaris sfateranno la favola monarchica, ma questa è un’altra storia… Una nuova generazione — con nuovi pensieri, nuovi problemi e nuove energie — si staglia vent’anni dopo Porta Pia sulla scena italiana. Finalmente, riprendendo ancora Volpe, «si veniva allargando la base della nazione. Per un verso, il Risorgimento si allontanava, con i suoi problemi risolti, i suoi partiti esauriti, con i suoi ideali fattisi più languidi, mentre la politica spostava i suoi centri verso questioni economiche e sociali. Per un altro verso, esso riprendeva a marciare, in modo nuovo, dopo vent’anni dedicati ad assestar in qualche modo le prima posizioni conquistate, e investiva strati più profondi, neppure sfiorati dalla rivoluzione politica del XIX secolo».