Quella mattina avevo deciso di andare in bicicletta all’appuntamento; nonostante fosse il 20 dicembre faceva freschino e non avrei sudato molto. Inoltre il biglietto del metro costava un euro e cinquanta e non potevo permettermelo , ormai solo gli ultrasettantacinquenni appena pensionati viaggiavano con i mezzi e qualche studente. Wan-Deng , il mio capo, mi aveva concesso mezza giornata libera: a mezzogiorno, dopo solo 6 ore di lavoro, avrei potuto fare quello che mi pare, una vera pacchia.
Presi quindi a pedalare verso il centro, il traffico era intenso, un continuo scampanellìo mi accompagnava lungo il tragitto. Passai di fianco al carcere di massima sicurezza Vittore, dove erano detenuti gli evasori fiscali per un programma di riabilitazione. La gente ironizzava sul fatto che lì l’evasione era impossibile.
Si diceva anche che a Vittore nessuno morisse mai. Di fatto, in piena notte, ogni tanto un furgone usciva dal carcere carico di alcuni sacchi sospetti, si diceva di salme portate a bruciare in qualche forno crematorio, con i documenti inviati al mercato clandestino dove sarebbero stati acquistati da chi tentava di fuggire in Libia.
Proseguii , passando di fianco alla Clinica Giuseppe, divenuta famosa perché vi operava il dottor Wandarachalsurya Patabendige Sudath, un bergamasco che con le staminali ci sapeva fare.
Arrivai finalmente davanti alla Grande Moschea, che riluceva in tutto il suo bianco splendore. Di fianco fervevano ancora i lavori di rifacimento del grande parcheggio sotterraneo di piazza Ambrogio, iniziati non ricordo quando.
Presi giù a destra per via Lanzone e arrivai nei pressi del luogo convenuto. Assicurai ad un palo la bici con tre lucchetti ed entrai in una stradina chiusa, dove una volta, a detta di mio padre, c’era il cinema Gnomo; lì ai suoi tempi si proiettavano film per ragazzi pagando cinquanta lire e potevi vederli anche due volte.
Arrivai di fronte ad una porticina grigia, bussai due volte come convenuto ed al “chi è?” risposi con la parola d’ordine “Carosello!” , che aveva un significato ma non ricordo quale.
Mi aprì un signore abbastanza anziano, avrà avuto sui novant’anni portati male , che mi invitò ad entrare. “Piacere , sono Giovanni” fu la sua unica presentazione.
“Ha portato i soldi?” chiese, e subito gli mostrai il biglietto consunto da100 euro, praticamente il mio ultimo stipendio. “Venga, venga” disse, e senza aggiungere altro si infilò in una scala a chiocciola che portava in basso , all’ingresso di uno stretto cunicolo di cui non si vedeva il fondo.
Camminammo per circa cento metri , l’aria mi mancava, la luce era fioca, finché giunti di fronte ad una porticina, si voltò verso di me bisbigliando: “adesso silenzio perché siamo nel ventre della balena!”, alludendo alla Grande Moschea che evidentemente era sopra le nostre teste.
Giovanni aprì la porta cigolante, accese una candela e ci trovammo in una grande stanza dalle pareti di marmo rosa di cui non vedevo bene i contorni; al centro una grande teca con 3 scheletri vestiti di paramenti dorati, una scritta recava i loro nomi, Ambrogio, Gervaso, Protaso.
Giovanni si chinò su un mobiletto presente in un angolo della sala, aprì un cassetto ed estrasse tre statuine , un san Giuseppe, un angelo ed una pecorella, “questa gliela offro io” , aggiunse .
“Mi raccomando, ha dove nasconderle ?”
Gli mostrai una borraccia che nel frattempo avevo tirato fuori dallo zainetto, la svitai a metà e ci infilai le statuine.
“Bene, ora possiamo andare” sussurrò Giovanni.
Percorremmo a ritroso il cunicolo, arrivammo nel suo negozio e ci salutammo sbrigativamente.
Raggiunsi la bicicletta sulla strada, un lucchetto era stato divelto ma gli altri due avevano resistito.
Tornai a casa, adesso faceva caldo, stavo sudando ma ero contento, a casa i bambini mi avrebbero accolto con gioia, quest’anno avevamo finalmente completato il presepe.
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