Lontana dai riflettori delle cancellerie internazionali, la Libia – o meglio, le Libie – continua ad avvitarsi in una crisi senza fine. Le violenze esplose nell’ultimo fine settimana testimoniano dell’aggravarsi della situazione economica – rincari di carburante e generi alimentari – , del progressivo collasso delle infrastrutture – le interruzioni della fornitura di energia elettrica sono in costante aumento – e, soprattutto, della montante rabbia popolare.
Rabbia che si indirizza equamente nei confronti dei due governi che, al momento, si contendono la rappresentanza della stato libico, quello insediato a Tripoli (unico riconosciuto a livello internazionale) guidato da Abdul Hamed Dabaiba e quello di Tobruk, presieduto da Fathi Bashagha e sostenuto dal generale Haftar.
Il cessate il fuoco dell’ottobre 2020 non si è rivelato sufficiente ad avviare realmente il processo di ricomposizione dello stato libico, trasformandosi in uno stallo che paradossalmente ha visto consolidarsi i due governi di Tripolitania e Cirenaica, con le rispettive incrostazioni di interessi ed ambizioni. Entrambi i governi, infatti, appaiono strettamente dipendenti dai desiderata delle numerose milizie e fazioni che dal caos libico traggono alimento e guadagni.
Difficile, dunque, immaginare che da Tripoli e da Tobruk possano arrivare in tempi brevi risposte concrete alle richieste di una popolazione sempre più esasperata da una crisi di cui, nel breve e medio periodo, non si vede la fine. Una situazione di stallo cui contribuisce anche la “distrazione” di Turchia e Russia, principali sponsor dei due governi libici, dallo scacchiere nordafricano.
Inutile sottolineare – una volta di più – l’assenza del governo italiano in uno scacchiere strategico per il Belpaese, ma tant’è: Roma, del resto, ha di fatto abbandonato la Libia nel 2011, accodandosi supinamente all’iniziativa francese. Le incertezze nel sostenere concretamente – ovvero con armi e risorse – il governo di Tripoli hanno lasciato campo libero alla Turchia di Erdogan, oggi “alleato” ieri “dittatore” nella narrazione del premier Draghi.
Chi, invece, in questo contesto caotico coglie occasione per tornare alla ribalta è la vecchia fazione gheddafiana. I seguaci del rais libico – negli ultimi giorni la bandiera verde della Jamahiriya ha fatto spesso capolino in piazza – hanno annunciato la prossima presentazione di una proposta tesa a superare la crisi, presentandola come “l’ultima soluzione pacifica possibile”.
In particolare è stato Saif al Islam Gheddafi – figlio del rais e già candidato alle presidenziali – a presentare un piano articolato in due opzioni: “la prima prevede che un organo (neutrale) stabilisca le disposizioni legali e amministrative per l’urgente svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari inclusive, a cui tutti partecipino e senza esclusioni, a prescindere da considerazioni e giustificazioni, e lasciando la decisione al popolo libico senza alcun guardiano”; la seconda, invece, considerando i contrasti esistenti sulla determinazione delle condizioni per partecipare alle consultazioni, suggerisce “che tutte le figure politiche si ritirino dal processo elettorale collettivamente e senza eccezioni per salvare il Paese come ultimo tentativo di risolvere la situazione di crisi in modo pacifico e senza spargimento di sangue”.