I droni turchi Bayraktar Tb2 – tra i protagonisti del conflitto in Nagorno Karabakh – equipaggeranno presto le forze armate albanesi. Ad inizio luglio il parlamento di Tirana ha approvato il relativo stanziamento di fondi, dando così corpo all’accordo di collaborazione militare tra Albania e Turchia siglato esattamente un anno fa. Intesa che non solo porterà le forze armate albanesi a rifornire i propri arsenali presso industrie turche, ma soprattutto consentirà ad Ankara di creare e rafforzare legami e rapporti tra gli apparati militari dei due Paese.
Un passaggio importante nel processo di radicamento dell’influenza turca nel Paese delle Aquile. Già da tempo, infatti, Ankara ha individuato nell’Albania una nazione chiave nel suo grande gioco mediterraneo, puntando al recupero dell’antico legame eredità dell’impero con l’unico Paese islamico (senza tener conto del complesso caso bosniaco) dei Balcani. La costruzione della moschea Namazgah di Tirana finanziata dalla Fondazione del direttorato turco per gli affari religiosi, la costruzione dell’ospedale di Fier (150 posti letto gestiti inizialmente da personale turco), i 522 immobili realizzati a Laç – colpita da due devastanti terremoti nel 2019 – dall’Agenzia turca per la cooperazione, sono solo i principali esempi di come Ankara lavori per conquistare non l’Albania, bensì gli albanesi.
Un attivismo, quello turco, che risponde ad un preciso disegno geo-strategico di proiezione ben oltre i confini anatolici. E che finisce inevitabilmente per scontrarsi con altre sfere d’influenza, ad iniziare da quella italiana. Il capitolo albanese è solo l’ultimo di una più ampia vicenda che si dipana nello scacchiere del Mediterraneo allargato, spazio che va dal golfo di Guinea all’Oceano Indiano. Una partita che Roma sta drammaticamente perdendo, per distrazione ed incapacità della sua classe dirigente.
Se l’Italia perderà la propria influenza in Albania ci sarà poco di sorprendente: Ankara è già riuscita a sostituire Roma in Libia, assumendosi il rischio di dare un significato concreto all’alleanza con quel governo di Tripoli che pure – ufficialmente – era sostenuto anche dall’Italia. Ma si sa, quando sul campo di combatte i fatti contano più delle belle parole, e così oggi l’Italia si trova costretta ad inseguire la Turchia lì dove in passato poteva contare su una solida influenza.
Identico copione in un altro scacchiere africano dove, al tempo della tanto vituperata Prima Repubblica, l’influenza italiana era un dato consolidato: la Somalia. Nel Corno d’Africa non solo la Turchia ha una solida presenza militare – la più grande base militare all’estero, il compito di addestrare l’esercito somalo – ma anche una forte presa sulle infrastrutture strategiche, ad iniziare dalla gestione dell’aeroporto e del porto di Mogadiscio. E Roma? Quanto sia stato ridimensionato il suo ruolo in Somalia lo dimostra il rapimento di Silvia Romano, risolto grazie all’intervento dei servizi segreti turchi.
C’è poi il capitolo Cipro, ma quello merita altra attenzione. Per ora limitiamoci a registrare il risultato di 3 a 0 a favore della Turchia nella complessa e vitale partita per il Mediterraneo.