C’era una volta la gauche francese. Un galeone apparentemente inaffondabile e invincibile. Sulla tolda troneggiava il potente Partito Socialista di François Mitterrand, alle vele manovrava l’arcigno Partito comunista di Georges Marchais mentre nelle stive e sentine si agitavano i vari coriandoli trotskisti, maoisti, operaisti. Poi una serie di naufragi e disastri assortiti aggravati dai tanti incapaci al comando.
Andiamo con ordine. Nella sensazionale discesa verso l’insignificanza politica ai socialisti gallici spetta di diritto la palma d’oro. Una lunga caduta iniziata con Jospin (battuto al primo turno delle presidenziali del 2022 da un sorprendente Jean Marie Le Pen), proseguita con Ségolène Royal (sconfitta da Sarkozy nelle presidenziali del 2007) e sigillata dallo schianto dell’incredibile François Hollande. Un raro esempio d’imperizia e superficialità. Nel 2012 l’occhialuto segretario del PS arrivò fortunosamente all’Eliseo e in un quinquennio fu capace di distruggere ciò che restava dell’antico partito di Leon Blum. Oltre alle sue disastrose politiche fiscali e sociali, celebri rimasero le sue fughe con le diverse amanti — con tanto di memoriali al cianuro delle ex… — e le sue battute irridenti verso le classi più disagiate, per lui nulla più che una massa di “sdentati” e falliti. Risultato: il record assoluto d’impopolarità per un presidente (l’80 per cento di opinioni sfavorevoli).
Archiviato nel 2017 l’imbarazzante Hollande il partito si affidò all’ex ministro Benoit Hamon. Peggio che mai. Alle presidenziali Hamon fu subito stroncato dall’emergente Emmanuel Macron che inchiodò il rivale a un mesto 6,36 per cento. Da allora il PS sopravvive malamente e oggi si affida per le presidenziali ad Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, nei sondaggi costantemente galleggiante attorno all’1,5-2 per cento.
Altrettanto triste la parabola del PCF. A partire dal 2000 il partito è crollato nei consensi e oggi naviga attorno al 3,3 per cento con soli dieci deputati. Poca roba ma sempre meglio dei risultati di Philippe Poutou del Nouvelle Parti Anticapitaliste e di Nathalie Artaud di Lutte Ouvrière, due figuranti del vecchio militantismo dell’ultrasinistra e ambedue inchiodati su percentuali irrisorie. Deludente altresì l’effimera parabola dei verdi francesi raggruppati in Europe Ècologie – Les Verts. Dopo un’ascesa impetuosa giocata sull’onda delle mobilitazioni dei Friday for Future e un ottimo 13,5 alle ultime elezioni europee, la formazione di Yannik Jadot è ora in affanno e i sondaggi si fermano a un modesto 5,3.
L’unico a svettare in questa triste palude è Jean-Luc Mélenchon, un personaggio indubbiamente interessante. Già trotskista in gioventù e poi ministro socialista con Jospin, nel 2008 rompe con il P.S e costruisce un suo partito personale (dal 2016 La France Insoumise) con cui si candida alle presidenziali nel 2012 arrivando quarto con 11,1 per cento dei voti e nel 2017, sempre quarto ma con il 19,58.
Grazie alla sua oratoria travolgente e una grande spregiudicatezza l’uomo è capace d’interpretare il malcontento di diversi (e disomogenei) segmenti della frammentata società francese: ex comunisti e radical chic ma anche parte dei “gilets jaunes” della Francia rurale, tribù multietniche delle banlieue, no vax, militanti woke e altri grumi mal assortiti di disperazione urbana. Nella sua narrazione tutti loro sono il “popolo della Francia creola”, quell’altro “popolo francese” ancora senza rappresentanza, diritti e potere. Una visione demagogica ma certamente pagante. Dopo una partenza in sordina, Mélenchon oggi viaggia attorno al 15,1, sotto Macron (27,4) e Le Pen (21,0) ma decisamente sopra Zemmour (10,2) e Pècresse (9,7).
In più a, differenza dei suoi rivali destristi, il tribuno gauchista sembra non pagare dazio per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina e continua a sostenere una posizione equidistante e, non velatamente, critica verso la Nato e l’America. Da qui le accuse di una stizzita Hidalgo a Melénchon reo, a suo avviso, d’essere «come Zemmour e Le Pen un agente di Putin, un complice dell’attacco all’Europa e ai nostri modelli democratici». Strali che però non colpiscono il leader di France Insoumise. Il candidato sa bene che il suo pubblico, il suo elettorato è indifferente a ciò che sta avvenendo ai limiti dell’Europa e palpita invece per altri temi: il costo del gas e dell’elettricità, il potere d‘acquisto, i prodotti di prima necessità, la disoccupazione. I problemi quotidiani degli ultimi. Le elezioni passano ma la rabbia sociale, e Mélenchon lo sa bene, non si placa.