La narrazione secondo Jerome Bruner, noto psicologo americano di orientamento cognitivista, è “la modalità fondamentale attraverso la quale le persone individuano il significato delle loro esperienze, sia ordinarie che straordinarie” (così come si evince dalla felice definizione di L. Zannini). E, aggiungiamo noi, la forma più originaria di narrazione è quella mitica, accompagnata dalla musica. Il termine “canzone” si diffonde in particolar modo nel medioevo e allude proprio a un racconto di gesta che hanno speciale esemplarità – quella tipica del mito – per offrire alle persone modelli per descrivere, trovare significato e orientare eticamente la propria vita. Ci troviamo qui in un contesto familiare per chi è abituato a guardare con un certo sospetto al razionalismo della nostra civilizzazione e non stupisce quindi che lo strumento della canzone, trasposto nella nostra contemporaneità, sia stato utilizzato da chi ha voluto raccontare una peculiare esperienza esistenziale, politica, culturale ai “confini della nostra civiltà”. È questo il caso di un cantautore poliedrico e ormai esperto come Skoll il quale, dopo anni di sviluppo, approfondimento, raffinamento, del filone della musica alternativa e del cosiddetto “rock identitario”, rappresenta secondo me l’esito migliore di questa grande narrazione di ciò che era rimasto, dopo il fascismo, a contestare da posizioni al tempo stesso nazionali, patriottiche, socialiste e comunitarie, il mondo di oggi e le sue derive oclocratiche. Sulla voce di Wikipedia a lui dedicata e sulla sua pagina facebook si trovano tutte le notizie circa la sua attività, e quindi per chi non lo conoscesse abbastanza, rimando a queste fonti. Io mi limiterei a considerare il suo ultimo sforzo, il CD intitolato Zero e pubblicato solo da pochi mesi. Il mio commento si riduce qualche riflessione sui testi, mentre sulla musica, essendo profanissimo, posso solo fornire impressioni necessariamente soggettive e generali.
Bene, “Zero”, come del resto gran parte delle opere di Skoll, è un gran bel racconto. Sempre in fecondo scambio tra la dimensione personale e quello universale-politica, di cui sa cogliere i reciproci riverberi, presenta una narrazione che ci conduce in due direzioni: da un lato quella di produrre un distacco critico da noi stessi, come comunità di persone che hanno fatto una certa esperienza politica, dall’altro quella di immergerci ancor più in nel centro dei nostri vissuti dove si trova il cuore del loro senso. Prendere distanza vuol dire capire, attraverso un approccio estetico, le ragioni profonde di alcuni atteggiamenti, di alcune prese di posizione scomode e però fondamentali che hanno caratterizzato uno stile del far politica. Immergersi nei vissuti significa collocare la politica sullo sfondo della vita concreta dei soggetti che la praticano, dei loro desideri e del loro personale modo di affrontare la vita. Ecco dunque la politica e le grandi prospettive ideali e la vita con i suoi orizzonti esistenziali: tutto questo troviamo in Zero, ad un livello di elaborazione artistica sempre più alto e raffinato.
L’esordio dell’album è intensamente politico. Vi si dà conto di una posizione radicale di giustizia e di verità che pochi oggi sono ancora disposti a perseguire coerentemente: l’anti-imperialismo che si oppone con forza all’egemonia politica americana sul globo. Di questo fondamentale orientamento, che denuncia gli ultimi soprusi perpetrati in Siria e Iraq, si offre un manifesto poetico in “Stati Uniti d’America”. Qui si stigmatizza il manicheismo americano, che divide ipocritamente il mondo in “buoni e cattivi” a seconda degli inconfessabili interessi globali degli States, le prassi segrete e la propaganda asfissiante del loro “pensiero unico”, le loro guerre programmate “a tavolino” che, prima di indicare al mondo presunti criminali e assassini, ne “armano la mano”. Nondimeno ciò che conta non risiede in quanto è propriamente “detto” nella canzone, ma in quella speranza cui la canzone, con i suoi semplici accenni allude per esaltare ex contrario la ricerca utopica di regni dove la barbarie e la doppiezza delle guerre per l’umanità sono superate in nome di una superiore etica della trasparenza cavalleresca…”se vita sarà, ancora”, “se luce sarà ancora”.
Dopo Stati Uniti d’America il registro cambia e comincia un altro racconto che fa perno sul singolo e sulla sua soggettività critica verso il proprio tempo, con il suo bagaglio di speranze, desideri ed esperienze. Se nel pezzo relativo agli Usa tale dimensione rimane nascosta dietro l’attacco alle potenze di questo saeculum, ora si dispiega pienamente in quelle canzoni dove prevale la prima persona, dove l’autore sembra voler profondere la ricchezza di ciò che appartiene a una storia personale. È l’occasione per seguire, attraverso impronte irreplicabili del soggetto, visioni universali del senso della vita, dove giunge a manifestarsi un centro, un spazio originario di produzione di significati e di propulsione vitale: l’amore. L’amore – “mattina e sera” tra amanti “schiavi di ritmi incalzanti” in metamorfosi continua con un mondo ancestrale dove una vegetazione ricca “di linfa pungente” è feconda di vita e di luce – è reso efficacemente attraverso metafore naturalistiche dalle quali traspare continuamente la sua potenza unitiva ed evocativa. La seconda canzone di Zero, “Questa è primavera” tratta di una potenza erotica trasparente e solare, che richiama una sfera di bellezza apollinea, benché marcata e rigata da metafore sessuali che delineano la presenza latente di Dioniso. Essa possiede il suo rovescio in una certa dimensione opaca, fatta di pulsione irrazionale, di corporeità, fantasia e tentazione, che fa capolino nell’eros più notturno del pezzo “Il veleno nel sangue”, posto più avanti a precedere “Cieli indivisibili e “Sotto la pelle”. Queste canzoni formano, con le prime due, un poker d’amore che nella sua ultima coppia sembra riproporre l’ambivalenza della prima: da un lato la celebrazione trionfale degli amanti “vele nel mare che tracciano rotte tra cieli indivisibili” e si scoprono “invincibili e fisici, notturni e magnifici”, dall’altro la promessa quasi morbosa di un innamorato che annuncia la sua presenza inestirpabile accanto alla sua donna, ma più ancora, “sulla (s)ua schiena, nella ferita / sul tatuaggio, tra le (s)ue dita / sotto le unghie nella (s)ua treccia / dalle caviglie nelle (s)ue braccia” fino a giungere “sulla (s)ua pelle” a “dormire sulla (s)ua pelle” a “mangiare sulla (s)ua pelle” ad essere “sotto la (s)ua pelle”. Sempre eros trasmigra dal cielo alla terra, e dallo spirito altissimo alle più carnali fibre del corpo. Sembra che “l’io de (bba) rischiare di perdersi nella bellezza per ritornare ad essere un io nel mondo, parte metamorfica della natura, perché questo accettare la forza demoniaca della bellezza dà la possibilità di avvicinarsi ad essa fino a confondervisi, e partecipare così alla sua immortalità, attraverso il gesto della creazione” (S. Zecchi, La bellezza, Bollati Boringhieri, 1990, p. 34). Infatti la bellezza trova nel mondo proportio, claritas, armonia, e conduce ad elevarsi dal mondo verso lo spirito, ma con ciò il mondo non è negato bensì valorizzato in ogni sua parte, e ciò consente di vivere natura e corporeità anche nella loro dimensione ctonia, dentro i suoi ritmi e dentro le pieghe del suo chiaroscuro dionisiaco, dove desiderio, pulsione, brama e volontà di vivere s’incontrano e si abbracciano…ecco allora la dinamica del ritrovarsi e del perdersi che è la cifra dell’amore cantato da Skoll: ritrovarsi nel cielo e perdersi nella notte in un gioco che è anche quello dell’utopia, di ogni politica e di ogni lotta utopicamente intese…
Con quest’ultima considerazione s’intende sottolineare l’intrecciarsi delle trame individuali in relazioni sempre più ampie che dal rapporto erotico tra singoli individui, si dipana, potremmo dire, attraverso la triade hegeliana di famiglia, società civile e Stato, in un legame sempre più universale dove l’eros diviene agape, amore per il proprio popolo, sentimento di appartenenza alla propria nazione. Tutto ciò si declina anche come immaginazione di mondi nuovi e di una nuova autenticità etica delle relazioni umane, sulla base di esempi mirabili di capacità di sacrificio per gli altri. La costruzione di mondi diversi richiede lotta e la lotta vuole sacrificio. In tale contesto emergono due figure fondamentali di donna e madre, Clelia Pizzigoni Calvi e Anita Ramelli proprio all’intreccio di quei profondi legami familiari e di quelli più universali che intravedono il servizio nei confronti della patria come compimento universale dell’amore, di quell’amore che dall’amato si è poi realizzato nei confronti del figlio fino a universalizzarsi nella nazione (“l’intera nazione, se impari ad amarla è casa tua” dice il verso di una canzone di un precedente album).
Skoll ci presenta innanzitutto la figura di una madre, Clelia, i cui quattro figli sono morti ricoprendosi di gloria, tre durante la Grande Guerra e l’ultimo da alpino coraggioso che sfida le montagne nel 1920. Una madre orgogliosa pur nel dolore, che ha offerto tutta la sua speranza e il suo futuro alla patria, un esempio di donna che la cultura dominante tende a sottacere, perché oggi i modelli vincenti sono le donne manager, quelle per cui la famiglia è un bene voluttuario che si ottiene quando si è sistemata la carriera e i figli un possesso da esibire per far vedere quanto successo si è ottenuto. Antropologie diversissime il cui succedersi segna macroscopicamente il passaggio da una patria che riconosce e celebra la grandezza ad una “puttana in mano ai buffoni”, ai carrieristi, ai guru dell’emancipazione, del progresso e del denaro. Clelia, donna del sacrificio e dell’amore, annuncia una possibilità diversa di incarnare un ruolo femminile, radicalmente alternativa ai criteri di valutazione dominanti e capace di accedere alle zone più profonde dell’umano, dove si celano anima, spirito e bellezza immortale.
Lo stesso si può dire di un’altra grande personalità come Anita Ramelli, madre di Sergio, silenziosa e discreta nella sua sofferenza per il figlio ucciso barbaramente sotto casa, eppure sempre tenacemente presente con la nostra comunità, che in Sergio si riconosce e si ritrova unita ogni anno. La canzone dedicata ad Anita, nella semplicità del suo ritornello: “…e tu lì con noi”, ad indicare la costante presenza della madre ai momenti di memoria collettiva del figlio, coglie in modo veramente pregnante il senso esistenziale del ricordo e della sua pubblica celebrazione ogni 29 aprile a Milano (data dell’assassinio di Sergio): si tratta della tenacia di una compagnia che non rinnega, che non accusa e che sa comprendere un destino segnato da una superiore necessità. Rispondere alla chiamata del coraggio delle proprie idee e della coerenza con se stessi ha portato Sergio a morire; sua mamma, consapevole della bontà della scelta del figlio, ne ha in qualche modo confermato l’esempio, affiancando la propria testimonianza d’amore a quella di Sergio: amore di madre, amore di italiana, che ancora dalla famiglia e dai suoi affetti si estende ad una comunità nazionale che oggi non merita più la devozione di persone di simile statura. E noi? E la sua comunità? “E noi sempre in piedi, a gridare il suo nome/, avambracci distesi, la pace l’onore/ e spiriti tesi nel giorno che muore/ uomini in piedi come lampi di cuore”. È molto bello che Skoll abbia costruito questo doppio registro tra i sentimenti di Anita e quelli di coloro che appartengono al suo mondo politico e culturale. Una comunità ha sempre i suoi riti e si stringe attorno ai suoi caduti. Ma ciò va oltre al puro dato sociologico. Non è solo una questione di coesione comunitaria, bensì di senso della vita, di ciò che ha valore. L’amore diceva von Hildebrandt è una “risposta al valore”, si ama ciò che vale, e ciò che vale è un pezzetto di eternità calato in questo mondo. Ramelli è un modo di pensare l’uomo, è una certa idea della vita, non costruita a tavolino da qualche intellettuale, ma in grado di attraversare tutta l’umanità di ciascuno di noi in quell’interiorità dove abita la nostra verità di persone.Skoll sintetizza poeticamente tutto ciò con due parole, la pace e l’onore. È un accostamento suggestivo di due concetti che alludono da un lato ad un certo acquietarsi delle nostre ansie e dei nostri desideri in una meta finale di giustizia, dall’altro ad un richiamo mobilitante ai doveri connessi alla nostra grandezza antropologica: l’onore non è infatti un valore semplicemente sociale, non è il buon nome borghese (come riduttivamente lo hanno interpretato Rousseau e un miserrima corrente del pensiero politico contemporaneo), bensì la chiamata a corrispondere nella prassi e nella vita ad una dignità umana che supera ogni prospettiva materiale e orizzontale. Skoll ha il merito di aver messo in una luce chiara tutto ciò, restituendo il significato non banale di una ricorrenza, nel suo continuo rimandare dal riconoscimento di una tragedia individuale, di un valore individuale, ad una dimensione superiore che in quella tragedia, e in quel particolare si radicano profondamente, come profondamente radicata nella madre e nel figlio è l’esperienza sorgiva di ciò che è bello, buono e grande per tutta una comunità umana e per le idee politiche che essa vuole esprimere.
Naturale compimento di tutto ciò, tralasciando un pezzo sulla corrida “dal punto di vista del toro”, un po’ troppo politicamente corretto (soprattutto per un divoratore di bistecche come il sottoscritto), è la canzone che dà il titolo alla raccolta, “Zero”. Zero è il nome che gli alleati diedero agli aerei giapponesi A6M, leggeri, manovrabili e all’inizio del conflitto molto superiori a quelli in dotazione agli Stati Uniti. Alla fine della guerra molti vennero destinati a piloti kamikaze. Per Skoll questi aerei diventano un simbolo di quell’eroismo che unisce la realtà del coraggio e della competenza tecnica alla metafora dell’”alto” del “cielo” del librarsi leggeri sfidando le leggi della gravità. Il quadro di questa estetica è ovviamente il futurismo, luogo d’incontro di aspirazioni sovrumaniste ancestrali e di modernissima precisione scientifica (il futurismo è sempre “archeofuturismo”). Così lo Zero, figlio di questa modernità austera e eroica, può con il suo motore “tagliare il cielo” e i suoi piloti “insegnare agli uccelli nove regole del volo”, in un contesto dove l’oriente tradizionalista e ascetico rilegge e domina con nuove forme dell’umano la sfera della tecnica di cui l’occidente liberale al suo tramonto rimane vittima. L’ombra di uno Zero che va verso l’alto e dei suoi piloti incuranti della morte si getta quindi con la sua etica eroica e la sua estetica futurista su tutta la raccolta, offrendole, secondo una prassi artistica ormai consolidata in Skoll, una cifra e uno stile epico. Dentro allora alla grande narrazione di un’umanità nuova immaginata attraverso la vicenda degli Zero si collocano i diversi episodi, le diverse storie di amore, d’avventura, di politica, di vita, morte, dolore, bellezza e utopia che l’album evoca e racconta. Una narrazione che non solo come abbiamo detto, riesce a restituire il senso di una esperienza politica e di una ricerca esistenziale che è di tutti noi, ma che non può non sviluppare ulteriori aromi seducenti e affascinanti per chiunque sia docile alle idee grandi e si lasci catturare da un concetto alto e nobile di umanità e di vita.
Ma la sorte dei piloti degli Zero, come di tutti gli uomini in cerca di liberazione – una liberazione autentica, esistenziale ed etica dalle catene della propria piccolezza borghese – è quella di una pace finale. L’ultimo pezzo del CD è tutto preso da una luce escatologica paganissima nelle sue forme, eppure universale nella sua ispirazione, che è quella dei campi elisi di omerica e virgiliana memoria. Nell’omonimo pezzo, è questo un luogo di pace, serenità ed eterna armonia, che sarà abitato da tutti coloro cui la terra ha negato ristoro e che pure tale condizione hanno meritato con lo stile della loro vita. “dove chi ha creduto / chi ci ha preceduto / ha trovato pace […] / la meglio gioventù (del 15-18) / i ragazzi di Tobruk (lanciati nella guerra)”. In tale luogo, che richiama motivi essenziali di tutto l’immaginario tradizionale d’Occidente, finisce la fatica, ma proprio per questo essa trova la sua ragione, perché può essere guardata retrospettivamente come ciò che ha reso l’uomo degno. In fondo non si cerca niente oltre che se stessi, sembra dirci con le sue ultime note Skoll, e il compimento non può che essere il ritrovarsi a contemplare la nostra identità realizzata nella pace attraverso il coraggio e il dolore. Rimane, a mio parere, in questa pace riposante e in queste armonie escatologiche, un’atmosfera di malinconia, come in tutte quelle storie in cui il futuro è consumato e il mistero svelato. Forse ci sarebbe bisogno anche qui di un Uno finale che sia anche un Tu misterioso e sorprendente al quale rivolgersi, mantenendo quell’apertura dialogante con l’Alterità assoluta, in cui si genera l’emozione dell’aspettativa, della curiosità e della relazione mai determinata che è la bellezza del futuro dentro l’eternità…ma ciò esula dalla prospettiva del nostro autore.
In conclusione due note, da profano appassionato, su stile e musica: l’originalità della voce di Skoll sta a mio parere nel senso della distanza che genera il suo timbro. Il nostro cantautore trasforma in voce il pathos della distanza, dell’allusione, della profondità, connotando il proprio cantare come un cantare-di-gesta. Ogni verso di Skoll viene da lontano e narra da lontano in straordinaria consonanza con il contenuto dei suoi testi. Ma alla dimensione epica, abbiamo detto, fa sempre da controcanto un ritorno all’individuale del vissuto del singolo: una sfera dove circola eros-agape, l’erotica dell’amore uomo- donna, che si fa agapica della comunità familiare, sociale e politica. Anche qui, sotto il profilo della vocalità, la consonanza tra forma e contenuto è perfettamente mantenuta, nella profondità suadente che acquisisce la voce che canta il mistero dell’attrazione sessuale nei paesaggi naturali in cui dionisiacamente gli amanti si confondono…una voce che si fa nei toni bassi sussurrante, confidenziale, quasi notturna per poi salire nei toni alti alla ricerca della luce, nell’invocazione, nell’esclamazione e nella perorazione.
Epica e lirica, dunque si fondono nello stile canoro di Skoll e questa è secondo me la cifra della sua maturazione di cantautore, che supera le fasi un po’ artigianali della musica militante – con tutti i suoi pregi, per carità: sono un devoto ammiratore di Andreina e degli Amici del Vento prima maniera! -, per approdare a livelli propriamente artistici. Ciò è confermato dalla qualità della musica – eccellentemente arrangiata – che si inserisce nel filone del cosiddetto “rock progressivo”. Che cosa è il rock progressivo? Riporto la definizione di Wikipedia: i rock progressivo “nacque rispondendo all’esigenza di dare alla musica rock maggiore spessore culturale e credibilità. Il nome del genere […], indica la progressione del rock dalle sue radici blues, di matrice americana, a un livello maggiore di complessità e varietà compositiva, melodica, armonica e stilistica. I fautori di tale tendenza si distaccarono dalla struttura musicale popolare tipica della Tin Pan Alley in favore di strumentazioni e tecniche compositive frequentemente associate alla musica classica (o alla musica colta in genere) e al jazz. I brani furono così rimpiazzati da lunghe suite musicali, che spesso venivano estese alla durata di 20 o 30 minuti, includendo influenze sinfoniche, temi musicali estesi, ambientazioni e liriche fantasy e complesse orchestrazioni”.
Come tutte le definizioni “astratte” anche questa va calata nella concretezza della prestazione musicale del singolo cantante. Nel nostro caso forse l’uso del pianoforte, la capacità di creare atmosfere “classiche”, oltre allo spessore culturale dei testi vanno nella direzione della citazione qui riportata. In effetti, ascoltando Skoll si ha la sensazione di una complessità e di una ricerca che continuamente perfeziona e meglio definisce i tratti stilistici della sua musica, in un cammino che non si accontenta mai delle mete raggiunte. Tale percorso è “progressivo” non per semplice accumulo ma per traguardi qualitativi sempre più alti dove la musica è continuamente ripensata e lo sguardo punta a quella differenza artistica che connota un’opera meditata differenziandola dalla semplice canzonetta.
In ogni caso, di là da discorsi più tecnici che mi guardo bene dall’affrontare, la qualità si percepisce immediatamente…ed è quello che conta! Senza gusto e accuratezza delle musiche e dei testi non si otterrebbe l’effetto di produrre bellezza che a sua volta produce piacere all’ascolto, che richiama rappresentazioni feconde del mondo, che genera partecipazione emotiva e intellettuale assieme, che in definitiva è la matrice di una possibilità universale di apprezzamento. Skoll infatti felicemente supera i ristretti confini di un genere destinato ad una precisa fascia di persone. Ciò è segno di un salto di qualità che nel suo complesso la “musica alternativa” sta compiendo, per la preoccupazione di molti cupi custodi del già-visto che temono le idee di cui si fa latrice. Il nostro cantautore è protagonista fondamentale di questa stagione. In lui, oltre alla pur imprescindibile funzione autobiografica della narrazione, oltre all’importanza decisiva che ha per noi il sapere estetico di noi stessi, vi è la trasgressione verso un universo fuori dai nostri confini: le belle idee aspettano solo di diffondersi per ornare il mondo, la musica è la loro più fedele servitrice…e viceversa.