La mediocre, se non dannosa, presidenza Obama sta riservando un finale paradossale: il primo mandato presidenziale di un afroamericano si sta chiudendo con una sanguinosa recrudescenza di problemi e disordini razziali.
Poliziotti bianchi che uccidono a sangue freddo uomini neri spesso con modalità sconcertanti che assomigliano a vere e proprie esecuzioni da una parte, uomini neri che uccidono poliziotti bianchi utilizzando le tecniche apprese dall’esercito dello Zio Sam e applicate in guerra dall’altra.
Un’escalation che Barack Obama, laureato ad Harvard ed in realtà figlio di una famiglia della borghesia bianca, non sembra in grado di controllare. Così come non è stato in grado di migliorare le condizioni sociali della minoranza nera.
153 anni dopo il proclama col quale Abraham Lincoln poneva solennemente fine alla schiavitù negli Stati Uniti e 53 anni dopo il famosissimo discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington di fronte a 250.000 persone, gli Stati Uniti sembrano essere fermi sempre allo stesso punto, più o meno quello indicato da Alexis de Tocqueville nel suo celeberrimo “La democrazia in America” (1835/1840), secondo il quale l’emancipazione degli schiavi non avrebbe risolto nessun problema essendo a suo dire impossibile che due popolazioni così diverse potessero convivere pacificamente nello stesso territorio su di un piano di parità.
Sull’emancipazione Tocqueville aveva perfettamente ragione, la principale motivazione di Lincoln era di carattere politico: serviva una copertura ideologica forte che giustificasse la guerra alla Confederazione, ma nessuno aveva intenzione di promuovere un’effettiva parità dei neri con i bianchi. Sul resto se non si sono, fortunatamente, verificate le sue fosche previsioni di una guerra tra neri e bianchi simile a quella con la quale erano stati sterminati i nativi americani, di certo il problema della convivenza tra i due gruppi non è mai stato risolto.
Prendiamo, ad esempio, la storia di Jesse Owens il grande atleta delle Olimpiadi di Berlino 1936 che la narrazione storico-politica ha trasformato in simbolo americano della lotta al razzismo per il presunto rifiuto di Hitler di stringergli la mano in quanto appartenente ad una “razza inferiore”. In realtà, che le cose erano andate diversamente, ma la parte meno conosciuta e più interessante della storia inizia con il suo ritorno in Patria.
Scrive Owens nelle sue memorie (The Jesse Owens Story, 1970) che “Hitler non mi snobbò affatto, fu piuttosto Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrami. Il presidente non mi inviò nemmeno un telegramma”.
FDR, impegnato nella dura campagna elettorale del 1936, in quel momento piuttosto incerta, non poteva permettersi di inimicarsi l’opinione pubblica degli stati del Sud ed i potenti notabili del suo partito che li governavano da sempre con politiche duramente segregazioniste.
Qualunque segnale, anche minimo, di apertura sarebbe stato considerato, a sud della linea Mason-Dixon, un imperdonabile cedimento. Mostrarsi con un campione nero e celebrarne pubblicamente il trionfo sarebbe stato quindi un grave errore politico e Roosevelt lo evitò accuratamente ignorando del tutto Jesse Owens.
Il simbolo (suo malgrado) della opposizione americana al razzismo tedesco una volta rientrato in patria era paradossalmente tornato ad essere un semplice “negro dell’Alabama” e come tale vittima da sempre, come milioni di afroamericani, proprio del razzismo e della segregazione razziale. L’opportunismo di Roosevelt non fu certo né l’unico né il maggiore problema che Jesse Owens dovette affrontare a causa della situazione razziale del suo paese.
“Dopo tutte quelle chiacchiere su Hitler ed il suo disprezzo, sono tornato nel mio paese ma sull’autobus non mi potevo sedere liberamente, ero obbligato a restare nella parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. E allora quale sarebbe la differenza?” osserva ancora nella sua autobiografia.
Arrivato New York per la tradizionale tickertape parade degli eroi americani, fu inviato come ospite d’onore ad un ricevimento al Waldorf Astoria, ma per accedervi dovette salire con il montacarichi perché l’ascensore era riservato ai bianchi. Tornato alla dura realtà di una società segregazionista, Jesse Owens si era dovuto adattare ai lavori più umili per mantenere la moglie Ruth e le tre figlie.
Riuscì a votare per la prima volta nel 1968, a 55 anni; nel 1976 (40 anni dopo Berlino) ricevette da Gerald Ford la Presidential Medal of Freedom e nel 1990, 10 anni dopo la sua morte e 54 anni dopo Berlino, George W. Bush gli assegnò, postuma, la Congressional Gold Medal, la più alta onorificenza civile americana. Niente di strano: gli Stati Uniti, sensibilissimi ai diritti altrui fuori dai loro confini, a casa loro erano (e in parte sono ancora) profondamente razzisti.
Nel 1896 la Corte Suprema con la sentenza Plessy vs Ferguson aveva definitivamente sancito la legittimità della segregazione razziale, secondo la dottrina del “separate but equal” (separati ma uguali), favorendo l’emanazione di leggi (le cosiddette Jim Crow Laws) e prassi che l’avevano estesa rapidamente a tutto il paese ed a tutti i settori della società. Gli afroamericani erano rimasti in condizioni di profonda sottomissione e ben lontani dal conquistare effettivi diritti civili (quelli veri, non l’utero in affitto o la stepchild adoption), i diritti politici e la parità con i bianchi.
A Sud la minoranza di colore viveva in condizioni miserabili, segregata, in miseria e senza diritti; al Nord e nell’Ovest la situazione era migliore, ma non più di tanto: i neri erano una forza lavoro a basso costo, potevano vivere solo nei ghetti delle grandi città industriali, frequentavano scuole ed ospedali separati ed erano lontanissimi dal riconoscimento di uguale dignità con i bianchi.
La Baseball Color Line, la regola non scritta che impediva ai giocatori di colore di giocare nella Baseball Major League, ad esempio, venne infranta solo nel 1947, quando Jackie Robinson fu ingaggiato dai Dodgers e divenne, non senza problemi, il primo giocatore professionista di colore del baseball (la vicenda è narrata nel film “42 – La vera storia di una leggenda americana” con Harrison Ford).
Un anno più tardi, nel 1948, il presidente Truman pose fine alla segregazione nelle forze armate, iniziata nel 1863 con la creazione nell’armata Unionista delle United States Colored Troops. Che l’esercito dei liberatori dell’Europa praticasse per legge la discriminazione razziale è un fatto spesso dimenticato (anche su questo tema esiste un bel film, “Storia di un soldato” di Norman Jewison del 1984).
I Buffalo Soldiers, come erano soprannominati i reparti afroamericani, venivano solitamente utilizzati come bassa forza con compiti pesanti, secondari e poco gratificanti, salvo pochissime eccezioni. Una di queste fu la 92ª Divisione di Fanteria “Buffalo”, che fu impiegata in combattimento sul fronte italiano lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo di allora, dalla Tammuriata Nera alle vicende della Pineta di Tombolo.
Bisognerà, invece, aspettare il 1954 perché la Corte Suprema ribalti la sentenza Plessy vs Ferguson dichiarando incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Ma per fare rispettare questo principio tre anni dopo, nel 1957, il Presidente Eisenhower sarà costretto, non senza esitazioni, a mandare a Little Rock la 101° Divisione Aerotrasportata.
Saranno i paracadutisti, le Screaming Eagles dello sbarco in Normandia (ma con reparti formati per l’occasione solo da soldati bianchi) a permettere a nove adolescenti afroamericani di accedere alla Central High School rimuovendo il blocco della Guardia Nazionale dell’Arkansas, che per ordine del governatore democratico Orval Faubus presidiava l’ingresso della scuola per impedire con ogni mezzo l’accesso ai ragazzi di colore, che dovettero essere protetti anche dalle minacce degli studenti e dei cittadini bianchi segregazionisti.
Il problema dei posti a sedere sugli autobus citato da Jesse Owens sarà superato nel 1955 grazie al coraggio di Rosa Parks ed ai 381 giorni del Montgomery Bus Boycott, ma solo nel 1961 e solo dopo l’intervento diretto del presidente Kennedy la Interstate Commerce Commission recepirà formalmente in un regolamento federale il divieto di discriminazione nell’assegnazione dei posti a sedere sui mezzi pubblici.
Da allora, dopo le oramai leggendarie marce di Martin Luther King e nonostante la formale abolizione della segregazione razziale e molti progressi, la condizione dei neri americani è rimasta problematica e si può dire che sul piano sociale ed economico la segregazione non sia mai finita.
Le statistiche e i numeri sono più espliciti di qualsiasi altra considerazione. Gli afroamericani senza lavoro sono, in media, il doppio di quelli bianchi: 2,02 disoccupati neri ogni disoccupato bianco nel 2013 (2,04 nel 1972); ogni 100 laureati ci sono 3,5 bianchi disoccupati contro i 5.7 neri; nel 2012 i laureati neri erano il 21% dei trentenni, contro il 38% dei coetanei bianchi, con una differenza di 17 punti percentuali contro i 10 del 1970.
In compenso gli afroamericani sono la stragrande maggioranza dei lavoratori a bassa qualifica. Oggi una famiglia nera su quattro si trova al di sotto della soglia di povertà; tra i bianchi meno di una su sette. Nel 2010 ogni 100 mila persone uccise tra i 25 e i 34 anni, 76 erano ragazzi di colore, vale a dire più di nove volte il numero di quelli di razza bianca della stessa classe di età e 14 volte sopra la media della popolazione degli Stati Uniti.
Secondo il Washington Post la probabilità di essere ammazzati dalla polizia è per i neri due volte e mezzo superiore a quella dei bianchi e la probabilità di morte per un afro-americano non armato è superiore di 5 volte rispetto a un bianco. Alla luce di tutto questo l’arrivo alla Casa Bianca del primo presidente nero sembra solo poco più che una suggestione simbolica del tutto priva di conseguenze sostanziali e concrete.
Anche le drammatiche condizioni della minoranza nera, oltre alla disastrosa politica estera ed agli errori in economia, peseranno negativamente sul giudizio storico di Barack Obama e non basterà certo qualche ispirato discorso a modificarlo.