Nel mediocre panorama della stampa italiana Il Fatto Quotidiano occupa una posizione molto particolare: con una diffusione (dati ADS marzo) di appena 56.566 copie tra carta e digitale, molte meno di quelle del Messaggero o del Resto del Carlino, riesce a condizionare pesantemente il dibattito pubblico sino ad influenzare governi, ispirare nomine pubbliche, piazzare gente nei CdA, sostenere magistrati, favorire il successo di personaggi improbabili.
Una specie di giornale-partito che cavalcando senza scrupoli l’ondata giacobino-giustizialista e la più becera antipolitica ha finito per ritrovarsi, con grande profitto, al centro del potere e della nuova casta, quella patetica degli incompetenti a 5 Stelle.
Un giornalista di punta della testata, Gianni Barbacetto, ha trovato il modo di occuparsi, ovviamente a modo suo, di Sergio Ramelli. Scandalizzato per uno stanziamento pubblico di 50.000 euro per ricordarlo nelle scuole, Barbacetto ci fornisce un perfetto spaccato della superficialità e della faziosità becera che animano certi ambienti e certi personaggi.
“Come si può inserire a scuola uno spazio per il fascio Ramelli” si chiede il bravo giornalista utilizzando una terminologia, carica di disprezzo, non molto diversa da quella che usavano all’epoca i militanti di Avanguardia Operaia che a Ramelli hanno spaccato la testa.
In fondo, ci fa capire Barbacetto, cos’era lo studente diciannovenne Sergio Ramelli se non un “fascio” al quale doveva essere “data una lezione” (meritata, ci pare di capire) che poi per qualche strano motivo ha finito invece con l’ammazzarlo?
Un “fascio”, non una persona, un ragazzo o uno studente, solo un “fascio” cioè uno che, secondo il giornalista del Fatto Quotidiano, non merita di essere ricordato perché “in vita professava un’ideologia fascista che giustifica l’uccisione della libertà e dei diritti di ciascuno”. Ragionamento aberrante ma tutt’altro che nuovo.
A voler trovare precedenti illustri, si parva licet componere magna, ci sarebbe Elio Vittorini e con il suo “Uomini e No”.
Per Barbacetto anche Ramelli, come tutti quelli come lui, è un “no”: il solo fatto di professare un’ideologia (definita) “fascista” gli rovescia addosso, come una colata di bitume, un marchio di infamia, gli accolla una colpa che prescindendo da comportamenti, fatti, responsabilità, lo rende bersaglio di una punizione giusta per definizione.
Così come, all’opposto, sempre per definizione, essere antifascista ti pone sempre e comunque dalla parte giusta indipendentemente dalle tue azioni: se spacchi un cranio a colpi di chiave inglese o bruci vivo qualcuno in un bar al massimo sarai un compagno che sbaglia, in fondo volevi solo “dare una lezione” in nome di una buona causa, pazienza se hai un po’ ecceduto.
Ragionamenti non troppo lontani da quelli che facevano a suo tempo gli assassini di Ramelli e quelli come loro, cambia solo il contesto: oggi contro i “fasci” si usa, fortunatamente, più la penna che la chiave inglese, ma la matrice è la stessa.
“Attenti dunque a come si racconta la storia” è il paradossale ammonimento di Barbacetto che però, tra, pregiudizi e luoghi comuni, la storia dimostra di non conoscerla affatto: non conosce quella di Sergio Ramelli, che secondo lui – altro ridicolo stereotipo – “non avrebbe concesso giustizia agli avversari”, non conosce (o non ricorda) quella di quegli anni, non conosce nemmeno la storia del processo, il che per uno che sguazza da sempre nel giustizialismo più sfrenato e nell’adorazione di sentenze e procure è assai curioso. Strano che non conosca e non “rispetti” (inutile slogan tanto caro al suo giornale) proprio questa sentenza.
Se la conoscesse capirebbe cosa rappresenta veramente la vicenda di Sergio Ramelli, di quale infamia fu figlia e quali e quante complicità, più o meno volontarie e ad ogni livello, la resero possibile.
Si accorgerebbe così che nessuno vuole “riscrivere la storia”, come crede lui: la storia è già scritta da tempo, in uno dei pochissimi casi in cui una vittima di destra ha avuto giustizia e nel quale la verità storica coincide con una verità giudiziaria inoppugnabile.
Nessuno vuole ricordare Sergio con la retorica di un “eroe”, come sostiene Barbacetto sbagliando grossolanamente. Lo ricordiamo, e lo ricorderemo sempre, come simbolo di coraggio e coerenza e come vittima di un odio sbagliato e diffuso che in un paese civile non dovrebbe mai più ripetersi e che, invece, qualcuno contribuisce ancora a legittimare.
Il diligente redattore del Fatto Quotidiano ci spiega poi, indignato, quale sia il vero problema: la “cerimonia fascista” “inscenata” da “militanti dell’estrema destra e ultras del calcio” [??] riuniti per il presente in via Paladini, secondo lui una “scena scandalo che sta facendo il giro dei social di tutta Europa”.
Siamo alle solite: trave e pagliuzza o se preferite dito e luna, ovvero indignarsi per la cosa sbagliata o quella che fa più comodo: meglio la solita gazzarra antifascista di maniera che una riflessione seria sulla violenza politica.
Anche in questo caso, poi, la narrazione di Barbacetto è piuttosto approssimativa: cita la condanna in primo grado del 2019 (l’ultima e l’unica per il momento ancora in piedi) ma dimentica o finge di dimenticare le decine di assoluzioni in Appello e Cassazione perché il fatto non costituisce reato che hanno spazzato via, applicando correttamente la legge, le precedenti sentenze di condanna alle quali quella citata è inevitabilmente destinata ad aggiungersi.
Di fronte alle reazioni indignate di chi si è sentito offeso dall’articoletto in questione, Barbacetto non ha fatto una piega, evitando di replicare nel merito e rifugiandosi nel confortevole ruolo di vittima dell’intolleranza dei “fasci”, come li chiama lui.
Una posizione comoda e redditizia come sanno bene certi suoi colleghi che su questo ci hanno costruito rendite solide e ben remunerative.