Fin da piccolo il mio grande sogno era stato di partecipare alle Olimpiadi. Mentre gli altri ragazzini collezionavano le figurine Panini dei calciatori, io preferivo quelle, sempre Panini, dei campioni dello sport, mentre tutti cercavano disperatamente l’introvabile calciatore Pizzaballa, a me mancava sempre il ciclista Pambianco per completare la raccolta. Primeggiavo in tante specialità ma in nessuna eccellevo, così mi rassegnai ben presto all’idea che avrei visto le competizioni olimpiche in televisione, come la maggior parte degli Italiani.
Ma non avevo considerato che alle Olimpiadi ci si può andare anche come spettatore e grande fu la mia gioia quando venni a sapere che un’amica tedesca dei miei genitori aveva invitato me e mio fratello ad assistere ai Giochi di Monaco 72.
Appena arrivati nella città bavarese in un agosto mite, notai subito il clima che i tedeschi volevano proporre al mondo: i colori negli allestimenti e nelle bandiere erano tutti di tonalità pastello, il rosa, l’azzurro, il lilla, l’arancione, mai tinte forti. La scelta della mascotte era ricaduta su un bassottino di peluche mite e simpatico, i visitatori avevano libero accesso ai campi allenamento, gli atleti erano avvicinabili ovunque.
Ricordo la grande emozione quando incontrai in Marienplatz, il centro pulsante di Monaco, il mitico Jesse Owens, il centometrista nero che rovinò la festa ad Hitler nel 1936. Il campione americano tornato in Germania, dispensava a tutti sorrisi ed autografi.
Tutto concorreva ad instaurare un’operazione simpatia che doveva far dimenticare il grigio ed il cupo di Berlino 1936. Era giunto il tempo per la Germania Occidentale di essere accolta nel novero delle grandi democrazie, di tornare ad essere grande protagonista nell’Europa libera.
Tifosi di tutto il mondo scorrazzavano tra i campi d’atletica e le piscine. Vidi allenarsi Mark Spitz, il più grande nuotatore di tutti tempi, con sette medaglie d’oro dominò le scene di quell’edizione olimpica. Si allenava con tanta ossessiva intensità che quando lasciò il nuoto smise di lavarsi per un po’, tanto provava nausea per l’acqua. La nostra nuotatrice di punta era finalmente una donna, Novella Calligaris, tanto forte che si allenava con gli uomini.
Ma la medaglia d’oro per noi arrivò con i tuffi dalla piattaforma di Klaus Di Biasi, che potei ammirare di persona nella avvincente finale. La nostra bella ospite tedesca infatti corruppe uno steward suo connazionale con ammalianti sorrisi e ci fece accedere senza biglietto alle gradinate della piscina. Sul campo di atletica potevi ammirare gli scatti del russo Valeri Borzov, di tanti atleti neri americani, e di un certo Pietro Mennea che proprio allora iniziava una splendida carriera fatta di record e medaglie.
In pista sbuffavano le tedesche orientali, fatte di testosterone, che , come diceva non proprio scherzando il nostro ostacolista di punta Eddy Ottoz, tutte le mattine si facevano la barba. Ma per loro e per tutti gli atleti dell’Est comunista i test antidoping non si facevano.
Nel salto con l’asta il nostro favorito era Renato Dionisi, che però si emozionò e venne eliminato subito. Era un atleta talmente libero che usava pagare il biglietto d’entrata di tutte le manifestazioni in cui gareggiava, per non dover niente a nessuno. Infatti a fine carriera non divenne mai consigliere regionale. Insomma c’era ovunque un clima di contenuta allegria, Munchen, la città dell’Oktoberfest, la “terrona” di Germania, accoglieva tutti con simpatia.
Poi una mattina di settembre dilagò subito la notizia che spense ogni sorriso. Un commando di terroristi palestinesi aveva preso in ostaggio alcuni atleti israeliani nel villaggio olimpico. Vi erano entrati con l’involontaria complicità di alcuni atleti americani completamente ubriachi che li avevano aiutati a scavalcare le recinzioni.
Attratti dalla notizia io diciottenne e mio fratello quindicenne ci recammo come al solito al villaggio olimpico, curiosi di vedere e di capire. Arrivammo fino ai limiti della recinzione dove una folla eterogenea scrutava le palazzine dove risiedevano gli atleti di tutto il mondo. Io tirai fuori la mia cinepresa superotto e cominciai a filmare, come fossimo su un set improvvisato di Disneyworld.
Quando inquadrai dei poliziotti tedeschi, appostati in diversi angoli con i mitra, dietro i muri delle palazzine, “mimetizzati” con tute Adidas ma con in testa il classico elmetto tedesco della seconda guerra mondiale, ebbi il triste presagio che le cose sarebbero finite male.
Lo spettacolo era grottesco, gli spettatori a pochi metri dalla tragedia senza nessuno che li allontanasse, gli atleti sul campo limitrofo che si allenavano normalmente, i poliziotti impreparati a tutto. Nella notte si consumò la tragedia, con tutti gli ostaggi uccisi.
La mattina dopo tutto era cambiato, perfino il tempo, con nuvole basse e un freddino autunnale. Le bandiere erano a mezz’asta, poca gente in giro, le competizioni sospese anche se solo per un giorno.
Una delle banalità ascoltate dopo l’11 settembre 2001, e ripetuta ossessivamente, era che da quel giorno, nulla sarebbe più stato lo stesso.
Fu il 5 settembre 1972 invece la data di svolta, in cui il terrorismo ottenne la prima vittoria, in cui le Olimpiadi divennero occasioni per stragi e strumenti di ricatto politico.
Certo a Città del Messico 68 ci fu il massacro di trecento giovani da parte della polizia che soppresse con inaudita violenza una spontanea manifestazione studentesca in piazza delle Tre Culture, poco prima delle inaugurazione dei Giochi. Gli studenti protestavano per le spese esagerate affrontate dal governo messicano per l’organizzazione delle Olimpiadi, ma nulla fu premeditato e tutto già dimenticato il giorno dell’inaugurazione. Interessante la testimonianza di Oriana Fallaci, presente e ferita negli scontri.
Sempre a Mexico 68 i velocisti Tommie Smith e John Carlos, si fecero immortalare alla premiazione dei duecento metri innalzando al cielo i pugni chiusi del Black Power. Quella foto fece il giro del mondo ed ancora oggi rimane il simbolo di quell’edizione olimpica. Fu il primo segnale dell’importanza politico- mediatica dei Giochi.
A Montreal 76 gli atleti africani si rifiutarono di partecipare per boicottare l’apartheid sudafricana, a Mosca 80 gli atleti americani non si presentarono per protestare per l’invasione russa in Afghanistan, nell’84 a Los Angeles fu la volta della ritorsione dei sovietici e del blocco dell’est, nel 96 ad Atlanta un Boeing 747 americano esplose in volo e una bomba fu piazzata al parco olimpico con morti e feriti, a Pechino 2008 invece chissà quanta gente è sparita nel nulla. E non sapremo mai quanti attentati siano stati sventati senza che si sia saputo qualcosa.
Ora arrivano le Olimpiadi invernali di Putin, dai tempi di Berlino 36 non accadeva che un’edizione olimpica fosse così strettamente associata al leader del paese ospitante. Tanti sono i fanatici pronti a colpire, tanti sono i perbenisti pronti a dilettarsi in ipocriti distinguo.