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“Pakistani Cinderella”. Non è una fiaba

di Eugenio Pasquinucci
15 Febbraio 2015
in Home
2
       

BRESCIA, 24 GENNAIO ANNO DOMINI 2014

C’era una volta, pochi mesi fa, Farah, una ragazzina di tredici anni, a cui piaceva andare a scuola. Frequentava la terza media, era sempre presente, anche il venerdì. La sua famiglia era arrivata in Italia dal Pakistan quando lei aveva cinque anni e subito si era ambientata.

Farah si alzava tutte le mattine alle sei, preparava la colazione per sé ed i suoi fratelli più piccoli, poi verso le sette usciva per prendere il bus che la portava nel centro di Brescia. Prima di arrivare a scuola, fiancheggiava le rovine dell’antico teatro romano e, se era in anticipo, si soffermava a guardarle, affascinata.

Per questo molti suoi compagni, con cui condivideva il percorso, la prendevano in giro.

In classe si impegnava molto, ascoltava sempre con attenzione le lezioni della sua prof di italiano e storia, Lucia Borgato, una donna minuta ma energica . Farah andava d’accordo con tutti , trascorreva la mattina a scuola in piena serenità, l’ora di educazione fisica rappresentava per lei il culmine della felicità .

Alle due del pomeriggio Farah tornava a casa e subito si dedicava ai lavori domestici, lavava i piatti e puliva i pavimenti. Intorno alle cinque faceva i compiti a casa, poi aiutava la mamma per la cena e per finire metteva a letto i fratellini.

Dopo qualche mese di scuola la professoressa Borgato notò che Farah era distratta, spesso sbadigliava, talvolta appoggiava la testa sul banco. Ad una interrogazione le parve pallida, insicura; certo l’età era quella critica, ma qualcosa non le quadrava.

La prof così decise di far fare un tema dal titolo “racconta una tua giornata tipica” e Farah si sfogò, spiegando ciò che noi sappiamo.

Lucia quando lesse il tema capì al volo la situazione e alcuni giorni dopo, durante l’ora di intervallo, avvicinò Farah e chiese conferma di ciò che aveva scritto.

La ragazza non solo ammise tutto ma aggiunse altri particolari delle sue fatiche; terminò però con un’implorazione “ non dica niente ai miei genitori, altrimenti mi spediscono in Pakistan!”.

La professoressa rimase molto turbata , non sapeva cosa fare, quale decisione prendere, se convocare i genitori e correre il rischio o lasciar perdere.

Chiese aiuto alla collega di religione che molto sbrigativamente le disse di non impicciarsi, che non era pagata per questo, che lo stipendio che prendevano non giustificava l’assunzione di queste responsabilità.

Trascorrevano i giorni e la situazione per Farah non migliorava, giungeva a scuola sempre più stanca.

Così Lucia andò dal preside e spiegò la situazione.

Il preside , un tipo puntiglioso, a volte noioso ma ricco di umanità, non stette a farsi troppe domande e decise di convocare i genitori di Farah.

Arrivò il gran giorno, guarda caso un venerdì.

I genitori furono puntuali, questo sembrò un buon segno, il preside li fece accomodare nel suo ufficio, con a fianco la professoressa Borgato.

Nonostante le preoccupazioni di Lucia, il preside fu molto attento e diplomatico nella sua relazione, non trascurò alcun aspetto umano. Lucia lo interrompeva con esortazioni a difesa e tutela di Farah.

La madre ascoltava rispettosa con lo sguardo rivolto in basso, annuendo di tanto in tanto, il padre sorrideva ad ogni frase dondolando la testa in su e in giù, senza una parola.

Al momento del commiato il padre strinse la mano al preside e rivolse uno sguardo fuggevole alla prof.

“Credo che abbiamo fatto un buon lavoro, professoressa!” commentò il preside al termine dell’incontro.

Il lunedì successivo la classe si riempì al suono della campanella ma un banco rimase vuoto. E così accadde il martedì e il mercoledì e tutti gli altri giorni.

Farah non arrivò più a scuola.

SUKKUR, 24 RABI ATH THANI 1435 ( un mese dopo)

Farah viaggiava su un pullman tutto colorato, pieno di gente, lungo la pianura dell’Indo diretta a Sukkur. All’arrivo ad aspettarla ci sarebbe stato Mohammad, venticinque anni, suo cugino e prossimo marito.

Avrebbero acquistato un sari con i bordi dorati di oro zecchino al mercato, primi preparativi al matrimonio.

Guardando fuori dal finestrino, Farah immaginava di passare ancora come ogni mattina nel tunnel sotto il castello di Brescia, di soffermarsi poi ai piedi del teatro romano, incorniciato dai cipressi, di sostare in piazza del duomo come le poche volte che aveva ottenuto il permesso di uscire.

Perché Brescia era la sua città, con i suoi amici, le sue abitudini, la focaccia e la pizza al trancio, gli scherzi e le parolacce. Lei era italiana e guardava tutta la gente seduta ed in piedi sul pullman come degli estranei, che parlavano una lingua sconosciuta.

Farah aveva tredici anni e già viveva di ricordi. Perchè?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.

 

Tags: BresciaimmigrazioneIslam
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Commenti 2

  1. daniele says:
    9 anni fa

    Perché, come spiega anche qualche esponente della cultura non di sinistra, non
    tutti i mussulmani sono uguali… (evidentemente i genitori della ragazzina erano membri dell’ISIS).

    Rispondi
    • Marco Valle says:
      9 anni fa

      Immaginare un miliardo e più di credenti (più o meno convinti) come un blocco monolitico e assolutamente ostile è limitativo e irrealistico. Una cosa è il Pakistan, un’altra l’Indonesia o la Malaysia e un’altra ancora la Turchia o la Siria e la Giordania. Culture e popoli diversi impongono chiavi interpretative differenti e il necessario realismo politico. Questa è la linea editoriale di Destra.it.

      Rispondi

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