Marta, donna di città, giunge con la figlia Nina a Malanotte, immaginario paesino di collina in Abruzzo. L’accoglienza non è delle migliori: la casa è stata ristrutturata male, e i compaesani sono a volte sgarbati, altre invadenti. La bambina è perseguitata da una presenza che, di notte, le risucchia il respiro: trovando soccorso, ma non comprensione, nella madre comincia un percorso iniziatico con Orsa, la balia che ha cresciuto tutto il paese all’insegna del culto della “pantafeca”, anima muliebre in pena per la perdita della prole.
Proprio nei giorni in cui i media rilanciano l’allarme della scarsa natalità in Italia (compensata, con profitto delle ONG, con l’afflusso coatto di sventurati allogeni) esce nei cinema nostrani questo “folk horror” dal discreto successo sul mercato di lingua inglese. La maternità tiene banco, nell’horror degli ultimi anni: da Jessica Chastain zia recalcitrante e infine madre adottiva ammirevole in “Mama – La madre” (Muschietti – Del Toro 2013) al piccolo satanista adorato dalla madre (anche stavolta, adottiva) in “Il Signor Diavolo” (Avati 2019): ma si può tornare indietro sino a pietre miliari quali “Rosemary’s Baby” (Polanski 1967) e “Alien” (R. Scott 1979). Lo scorso anno – come per “Pantafa”, poco prima di Pasqua – in Italia usciva (tardivamente) un curioso film scandinavo (produzione islandese-svedese-polacca), “Lamb”, con Noomi Rapace a contendere la figlia (ibrida) a una pecora; in estate invece era il turno di “The Other Side” (girato due anni prima), discreto horror svedese nel quale una ragazza protegge il figlio del fidanzato da un mostro che lo pretende per sé: filmetto tanto infarcito di citazioni da rischiare d’essere un collage di plagi.
Non c’è nulla di nuovo nemmeno in “Pantafa”: dai bambini sulla soglia fra questo mondo e l’al di là (onnipresenti, dopo “Il giro di vite” di Henry James e annessi adattamenti) alle telefonate anonime con voce sibilante (che, invariabilmente, intima di andare via), dalla conventicola che trama alle spalle della protagonista al paesino oppresso dai suoi misteri, dalla bambina minacciata da un’entità demoniaca alle frasi infantili che lasciano sgomenti gli adulti. “Pantafa” è quasi un remake di “The Wicker Man” (supercult, diretto da Robin Hardy e scritto da Anthony Shaffer nel 1973, con Christopher Lee capo carismatico dei pagani di un’isola delle Ebridi): una comunità isolata e custode d’antiche credenze, un protagonista che vi approda dal mondo urbano (e che, pur considerandosi superiore perché meglio civilizzato, vi si trova fatalmente disadattato), un culto della fertilità il cui rituale più importante è il rogo d’un grande fantoccio.
Il film ha un suo carattere e un suo fascino, ha l’intelligenza di non svelare nulla allo spettatore, lasciandolo sospeso per tutto il film senza mostrare niente: è un horror senza spaventi (a parte alcuni “jump scare” e qualche rumore improvviso) ma con tanta atmosfera. Il che è il suo pregio ma anche il suo limite: resta l’impressione di aver visto mezzo film, che si sarebbe potuto fare qualcosa di più. Un altro grave problema è il finale: frettoloso, scritto approssimativamente (c’è un buco narrativo e pure grandicello) e girato peggio.

“Pantafa” è interamente gettato sulle spalle (come già “3/19”, bruttissima farsa di Silvio Soldini su quanto sono cattivi i milanesi) di Kasia Smutniak, cavallona italo-polacca che sarà pure fighissima (pur standosene per quasi tutto il film in jeans e giacca di pelle) e pure bravina, ma da sola non ce la fa (e in alcune scene non ci prova nemmeno). A parte Betti Pedrazzi (Orsa), il cast di contorno è lasciato da parte: meglio così, perché tra Francesco Colella (già con la Smutniak nel succitato “3/19”, oltre che nel ruolo dello psichiatra piacione e viscido in “Petra”, serie poliziesca con la Cortellesi) e l’impresentabile Giuseppe Cederna (il peggiore attore italiano di sempre, eppure gira più film di Favino: miracoli del cognome e dello schieramento politico), il livello recitativo è da fiction, tanto che spesso la piccola Greta Santi rischia di sovrastare i colleghi adulti. Fotografia livida (col rischio della monotonia, vizio comune a parecchi horror di questi anni) di Simone D’Onofrio; costumi di una gloria del cinema italiano, la premiatissima Gabriella Pescucci (Oscar per “L’età dell’innocenza” di Scorsese, BAFTA per “C’era una volta in America” di Leone e “Le avventure del barone di Munchausen” di Gilliam). Già regista per la RAI, Emanuele Scaringi aveva diretto la Smutniak in “La profezia dell’armadillo”, dai fumetti di Zerocalcare.
Film affascinante e non riuscito, nobilitato dalla presenza di gatti (parecchio malmostosi), e dai titoli di coda ispirati agli studi di Ernesto De Martino su “Il mondo magico”.