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Paolo Gentiloni, conte di Filottrano e di altri posti. Un uomo indeciso a tutto

di Redazione
11 Dicembre 2016
in Rassegna Stampa
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Paolo Gentiloni, conte di Filottrano e di altri posti. Un uomo indeciso a tutto
       

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Paolo Gentiloni, di anni sessantadue, di lignaggio nobile in quanto conte, premier prossimo venturo, nome in codice «Er Fotocopia». Nella sua carriera politica che in queste ore tocca il suo apice si è infatti sempre acquattato all’ombra di un mentore adottandone anche la fisionomia, a ciò favorito dal suo aspetto anonimo.

Accadeva con Francesco Rutelli, sindaco di Roma a cavallo dei due millenni, di cui fu portavoce e anche assessore, e del quale sembrava il fratello timido e occhialuto. È accaduto negli ultimi due anni con Matteo Renzi, che nell’ottobre 2014 lo arruolò in corsa per sostituire alla Farnesina Federica Mogherini promossa nel frattempo alto commissario europeo per gli Affari Esteri, sottraendolo al grigiore da commissione parlamentare e facendone uno dei suoi fedelissimi, perfetto nella sua opacità per non fare ombra a un premier che voleva fare l’asso pigliatutto.

D’altronde il soggetto non è un acchiappafolle. Le sue conferenze stampa sono, per tono di voce monocorde e per contenuti, elettrizzanti come un telefilm tedesco del dopopranzo. Quando si è esposto in prima persona Gentiloni-chi? è stato sepolto da un silenzio assordante. Accadde anche alle primarie del centrosinistra per la corsa al Campidoglio del dopo-Alemanno, nel 2013: finì terzo dopo Ignazio Marino e Davide Sassoli, non proprio due statisti di statura internazionale.

Il conte Paolo Gentiloni Silverj, discendente di una nobile stazza di marchigiani imborghesiti e trasferiti nella capitale, è così, un uomo per tutte le stagioni. Soprattutto le mezze stagioni, quelle che notoriamente non esistono più e quindi sono perfette per lui che si nota allo stesso modo se c’è o non c’è. Da politico ha sempre vissuto negli interstizi del potere, incarnando lo Zeitgeist del tempo ma sempre in seconda fila, dove si sta più comodi. Nato cattolico, sedotto nei primi anni Settanta dalla sinistra extraparlamentare che si dissolve senza avvertirlo, si ricicla in ambientalista negli anni in cui green is the new black e da direttore della rivista di Legambiente La Nuova Ecologia conosce Francesco Rutelli, del quale diventa portavoce quando questi viene eletto sindaco di Roma, nel 1993. La stagione del rutellismo, mai abbastanza rimpianta nella capitale, se la fa tutta. L’ultima pagina è però infelice: nel 2001 Rutelli è il candidato premier contro Berlusconi, e Gentiloni ne è il megafono: promette un faccia a faccia televisivo tra i due candidati che non si farà mai. In trance agonistica garantisce una vittoria che non ci sarà, perché il Cavaliere asfalta il sindaco con oltre 5 milioni di voti di vantaggio. Così Gentiloni torna a tacere e si ricicla. Saluta Rutelli e si fa eleggere con la Margherita, di cui è uno dei fondatori, alla Camera dei Deputati dove si dà alle telecomunicazioni, diventando presidente della Commissione Rai e, nel 2006, con il governo Prodi-bis, ministro. Qui ingaggia la battaglia delle battaglie: abbattere la legge Gasparri da Prodi ritenuta troppo filoberlusconiana. Non ci riesce, così come si arena la riforma della Rai che sottrarrebbe la mamma delle tv al ministero dell’Economia; il governo Prodi dura un amen, e lui passa alla storia come il ministro delle promesse non mantenute. «Er Fotocopia» rientra nei ranghi, viene rieletto deputato anche nel 2008 e nel 2013, nei ritagli di tempo fonda il Pd e diventa l’eterno candidato a sindaco di Roma. Fin quando Renzi lo riporta al governo come ministro degli Esteri.

Alla Farnesina il conte brilla solo per un buono ancorché scolastico inglese. L’Italia, però, prende uno schiaffo dopo l’altro e le guance sono quelle sue paffute. Vengono liberate Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le cooperanti rapite in Siria, e Gentiloni assicura: l’Italia non ha pagato il riscatto. Peccato che le ragazze e molte fonti, tra cui l’Ansa, sostengano il contrario.

Gentiloni è quello che i tedeschi chiamerebbero Backpfeifengesicht, una faccia piena di pugni. Lo colpisce l’India, che ci prende in giro a lungo sulla vicenda dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Doppia il colpo l’Egitto, che fa il finto tonto sul caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano ucciso tra la fine di gennaio e l’inizio del gennaio 2016 alla periferia del Cairo. Fa arrabbiare Israele per l’astensione italiana nel voto all’Unesco sulla risoluzione che sbianchetta l’ebraicità dei luoghi sacri di Gerusalemme e il ministro si giustifica: «Si è sempre fatto così». Riesce a irritare perfino la sinistra politicamente corretta quando ipotizza che sui barconi dei migranti si infiltrino terroristi. Si rimangia tutto e fa innervosire chi aveva apprezzato che un ministro avesse finalmente detto ciò che quasi tutti pensano.

È Paolo Gentiloni, conte di Filottrano e di altri posti. Un uomo indeciso a tutto. Ultimo indirizzo conosciuto: Palazzo Chigi.

Andrea Cuomo. Il Giornale, 11 dicembre 2016
Tags: EgittoIndiamaròMinistero degli EsteriPaolo GentiloniRoma
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