La vittoria ai campionati europei di calcio, oltretutto umiliando la Perfida Albione a casa sua, si è portata dietro l’inevitabile rituale dei festeggiamenti “patriottici” con annessa sbornia di tricolori, inni nazionali cantati a squarciagola per strada e invocazioni messianiche alla Patria (calcistica). Un fenomeno esploso con la vittoria ai campionati del mondo nel 1982 e che da allora si ripete regolarmente ad ogni impresa calcistica anche se a chi, come il sottoscritto, ha vissuto allora quell’avvenimento quelli successivi sembrano sempre una fotocopia un po’ sbiadita, un rituale scontato e un po’ stantio
Senza nulla togliere a quella che è in fondo una sana festa popolare, alimentata dalla passione calcistica più che dall’amor di Patria, il fenomeno si presta a qualche considerazione critica. Marcello Veneziani ce ne ha fornito la definizione perfetta: “patriottismo di giornata”. Solo col calcio e solo in certe giornate legate al calcio gli italiani si accorgono di essere una nazione, una comunità con “valori” comuni e si riconoscono nei suoi simboli.
In questi casi il pallone sostituisce da noi quello che per gli Inglesi è la Monarchia, per i francesi la Republique e la sua grandeur (più immaginaria che reale), per i Tedeschi la Vaterland egemonica, per gli Americani l’adesione incondizionata ai valori fondanti. Da noi solo qualche eccezionale e fugace avvenimento sportivo (oltre al calcio fenomeni come la valanga azzurra o la Ferrari) riesce, di quando in quando, ad unire gli Italiani e a farli sentire, per un attimo, tali.
Passata la festa, però, tutto torna come prima e la scarsa consistenza etico-politica del carattere nazionale torna a prendere il sopravvento, l’Italiano torna ad essere quello che è sempre stato: individualista, indisciplinato, settario, familista, inaffidabile, scaltro e disincantato pronto a riconoscersi in tutto tranne che nello stato, che concepisce come fornitore di risorse delle quali approfittare, o nella nazione ritenuta solo un concetto astratto e superato.
E’ un male antico, aggravato dai decenni di gestione consociativa del potere da parte di due fortissime culture antinazionali come quella cattolica della DC e quella comunista PCI. Il problema è efficacemente riassunto dal famoso aforisma attribuito a Massimo d’Azeglio (in realtà formulato nel 1896 da Ferdinando Martini che voleva riassumerne il pensiero): “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Secondo d’Azeglio “I più pericolosi nemici d’Italia non sono i tedeschi, sono gl’italiani. […] Per la ragione che gl’italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima che si riformino loro”, parole scritte pochi anni dopo l’Unità d’Italia ed ancora oggi tristemente attuali.
Si può dire che dall’Unità (ricorrenza non a caso da sempre praticamente ignorata) ad oggi tre fattori più di altri abbiano contribuito, o tentato di contribuire, anche senza volerlo, a “fare gli Italiani”, così come ve ne sono state altre che, al di là della artificiale retorica ufficiale, sono andati in direzione fortemente contraria come il divisivo mito resistenziale.
Il primo fattore è la Grande Guerra, cioè la prima vera grande e difficile prova affrontata dall’Italia unita come nazione e come popolo. Una certa storiografia schierata tende a svalutare il valore di quella drammatica e tragica prova utilizzandola, anzi, per alimentare lo spirito antinazionale. Eppure fu quella la prima volta in cui Italiani del nord e del sud, contadini e cittadini, braccianti ed artigiani, borghesi e proletari, intellettuali ed illetterati, sino ad allora estranei e lontani sia geograficamente che socialmente, si incontrarono, si conobbero e si ritrovarono uniti nelle trincee con uno stesso destino e con un unico obiettivo comune. E dietro di loro una nazione non priva contrasti, contraddizioni e diserzioni, li sostenne riuscendo a superare unita una situazione difficilissima uscendone più forte. Già allora, come oggi, la classe dirigente nazionale si era rivelata inadeguata, impreparata ed incapace, ma il popolo, la massa degli Italiani, aveva dimostrato di essere migliore e più degna di chi la guidava.
Un altro importante contributo alla formazione degli Italiani lo ha fornito nel dopoguerra la televisione del boom economico, capace di parlare e far parlare tutti in una stessa lingua e di imporre agli Italiani un’unica, comune cultura popolare fatta di svago ma anche di impegno, di Mike Bongiorno e Raffaella Carrà (scomparsa proprio in questi giorni) ma anche di grande letteratura, di dibattito politico, di divulgazione scientifica facilmente comprensibili ed accessibili a tutti.
Il contributo più rilevante, però, il tentativo più energico ed importante si colloca temporalmente tra i due di cui sopra e si chiama Fascismo. Quello di forgiare un nuovo Italiano che, temprato dalla dura esperienza delle trincee, abbandonasse gli atavici difetti e la persistente mediocrità che avevano reso l’Italia una misera espressione geografica in balia degli interessi e dei poteri stranieri è uno dei miti portanti della mistica fascista.
La convinzione (condivisa da Gioacchino Volpe) che la rivoluzione fascista fosse l’avveramento della rivoluzione nazionale mazziniana era largamente diffusa nella classe dirigente del regime, molti dei suoi componenti si erano formati proprio sulle idee mazziniane: Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Italo Balbo (laureatosi con una tesi su “Il pensiero economico e sociale di Mazzini”), Alfredo Rocco e, naturalmente, Giovanni Gentile e lo stesso Benito Mussolini avevano tutti studiato ed ammirato Giuseppe Mazzini.
Come ha scritto Renzo De Felice il Fascismo con i suoi miti (la Patria, la romanità, il primato italiano), le sue realizzazioni, come la scuola pubblica gentiliana il cui compito era proprio la formazione di nuovi cittadini, e gli atteggiamenti anche più banali ed esteriori (il saluto romano, il voi, il sabato fascista) altro non era che un tentativo di “fare gli Italiani” imponendo loro modelli di comportamento nuovi e di rottura col passato.
Un tentativo, però, annacquato da troppi compromessi e fallito miseramente sotto il peso della guerra perduta, della vergogna dell’8 settembre e dell’orrore della guerra civile, cioè di manifestazioni deteriori ed infami del vecchio ed immutabile carattere nazionale. Lì finisce l’idea dell’Italia come grande nazione, l’illusione che dopo la riunificazione politica, la costruzione dello stato unitario, la vittoria nella Grande Guerra l’Italia potesse finalmente diventare protagonista della storia europea e che gli Italiani potessero trattare con pari dignità con le altre grandi nazioni.
Non è andata così: gli Italiani sono rimasti, per la gran parte, quelli di sempre, l’Italia è diventata un “paese democratico” ma non è mai più stata una nazione, non ha mai recuperato né la dignità perduta né il rispetto e viene trattata di conseguenza, come dimostrano chiaramente le vicende europee di questi anni.
Anche per questo il rumoroso ed effimero patriottismo di giornata risvegliato dal calcio, niente di più che una bella scatola vuota, lascia il tempo che trova.