Indipendente de facto dal 1949, Taiwan riuscirà a tagliare il traguardo simbolico del 2049 salvaguardando la propria sovranità? Se in ambito geopolitico ogni analisi è condizionata da numerose variabili, una “previsione” sul futuro a medio termine della Repubblica di Cina – questo il nome ufficiale dello stato taiwanese – rappresenta una sfida quasi impossibile. E questa volta, paradossalmente, non per l’abbondanza, piuttosto per la scarsità di variabili in gioco, riconducibili in realtà ad una sola: l’effettiva volontà della Repubblica Popolare Cinese di festeggiare il centenario della vittoria del Partito Comunista nella lunga guerra civile cinese con la “riunificazione” della madrepatria.
Ovvero con il rientro – spontaneo o meno, poco importa – di Taiwan sotto la sovranità di Pechino, sulla scia di quanto avvenuto nel corso degli ani ’90 del secolo scorso con l’ex colonia portoghese di Macao e con quella britannica di Hong Kong.
L’unico che sembra avere le idee chiare sul futuro di Taiwan è Xi Jinping, riconfermato alla guida della Repubblica Popolare Cinese in occasione del XX Congresso del Partito Comunista dello scorso ottobre. In quella occasione Xi ha sottolineato come Pechino continuerà ad insistere «sulla prospettiva di una riunificazione pacifica con la massima sincerità e i migliori sforzi, ma noi non prometteremo mai di rinunciare all’uso della forza e ci riserveremo di prendere tutte le misure necessarie». E questo perché «la riunificazione completa della nostra madrepatria deve essere realizzata e sarà sicuramente realizzata». Certamente entro il 2049, possibilmente prima del centesimo “compleanno” della Repubblica Popolare.
Per raggiungere questo obiettivo Pechino continua a potenziare il proprio strumento militare, consapevole di non aver ancora raggiunto la parità con Washington – almeno sotto il profilo tecnologico, piuttosto che sotto quello numerico -, anche se sempre meno timorosa di sfidare apertamente il rivale statunitense. Come ben testimonia la dimostrazione di forza in occasione della crisi estiva innescata dalla visita di Nancy Pelosi a Taiwan.
Il confronto tra Washington e Pechino – in quella circostanza ridotto a reciproco sfoggio di forza – è solo rimandato, ma nella prospettiva degli analisti tanto statunitensi che cinesi è ritenuto ormai inevitabile. Tanto che la stessa gestione della crisi ucraina è condotta dagli Stati Uniti con un occhio alle ricadute sullo scenario dell’Indo-Pacifico. Con buona pace delle speranze – o dei timori – dei soci europei di Washington.
E Taipei? Ai cinesi insulari non resta altro da fare che confidare nello sbandierato sostegno statunitense e prepararsi al peggio. Perché fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, soprattutto se si è costretti ad interpretare il ruolo di vaso di coccio tra vasi ferro.
Pur consapevoli dell’incolmabile divario quantitativo, a Taiwan si lavora per rafforzare al massimo il dispositivo militare destinato a difendere la Cina insulare dalle attenzioni dei “fratelli” continentali. La strategia è quella del porcospino: rendere l’isola un bastione che può essere espugnato solo al prezzo di enormi perdite materiali ed umane. Nella speranza che questo lo renda un boccone indigesto anche per un gigante dal robusto appetito come la Repubblica Popolare.