La condivisione della tavola, il gioioso ritrovarsi, durante le feste, con amici e parenti, assume, in Italia in un modo tutto particolare, i contorni di una prassi liturgica, di una sequenza di gesti, odori, rumori e sapori, ammantati di una sacralità tanto diffusa, quanto discreta. Mangiare non si riduce mai a mera azione di accaparramento nutritivo: è un evento culturale e comunitario. Riguarda la storia e la geografia di ogni singolo uomo, ne racconta l’appartenenza, l’identità, le sue radici più antiche. L’omologazione odierna globalizzante non minaccia soltanto la capacità critica degli intelletti, ma anche la piena funzionalità delle nostre papille gustative, progressivamente assuefatte a retrogusti chimici e artificiali, del tutto privi di genuinità, brio e fantasia.
Il livellamento culturale si rivela nella scarsa qualità del cibo, nonché nei tempi rapidissimi richiesti per consumarlo. L’uomo deve produrre, lavorare, consumare e spendere: il tempo dedicato alla contemplazione, all’incontro e al riposo, non è funzionale alla logica dell’utile. Il benessere prende il posto della salute, l’ecologismo quello dell’amore per la natura: si fa strada un culto edonista e idolatrico, nei confronti di un mondo senza confini, paesi e narrazioni. L’uomo, come la colomba kantiana, vorrebbe volare senza il fastidio del vento, dell’aria, ignorando che proprio in tale attrito e impaccio risiede la condizione fisica del suo libero librarsi nel cielo. Non vi è libertà senza limite, non vi è casa senza pareti, non si è uomini senza passato.
Tra i padri fondatori della nostra amata nazione merita, di certo, una menzione d’onore, la celebre figura di un “commerciante, appassionato di letteratura italiana (fra l’altro studioso di Foscolo) [che] è passato alla posterità soprattutto come autore della più celebre opera italiana di cucina” (G. Pécout, Il lungo risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), a cura di R. Balzani, Milano, ed. Bruno Mondadori, 2011, p. 269). Mi riferisco a Pellegrino Artusi che con il suo noto libro L’arte di mangiar bene, pubblicato nel 1892, pur muovendo, inevitabilmente, “da una base fortemente regionale, nel tal caso in questione tosco-romagnola” (Ibidem), avrebbe indicato la via per un’unità culinaria alle differenti genti italiche.

Non si limitò alla presentazione di alcune semplici ricette per le giovani coppie, ma fece, invero, emergere tutta la bellezza e la grazia del cucinare, promuovendo una sorta di pedagogia dei fornelli, ispirata alla triade “igiene-economia-buongusto” (Ibidem). L’autore si impegnò anche nella lotta contro la piaga dell’alcolismo, offrendo rimedi pratici per ogni singola esigenza, “mostran[do] il desiderio di inserire l’impresa in una pedagogia della moderazione tipica della borghesia di fine del secolo: “fanno malissimo coloro che si lasciano vincere dal vino!”, avverte l’autore in un periodo in cui fanno la loro timida comparsa le prime leghe contro il dilagare dell’alcolismo” (Ibidem).
E ancora: “Ma il carattere pratico dell’opera, scritta in un toscano semplicissimo, dallo stile brioso, ricco di storielle e aneddoti personali, e con in più il proposito di legittimare, addomesticandolo, il quotidiano piacere del gusto (almeno per chi allora poteva permetterselo), spiegano la portata di un successo mai venuto meno” (Ibidem). Contro le tentazioni unificanti e gli impoverimenti in atto, facciamo memoria degli insegnamenti, e dei nobili propositi, dei grandi della storia, nutrendoci, con gratitudine rinnovata, alla mensa del sapere.
Bello e interessante
Grazie per il giudizio favorevole.