La “Questione meridionale” è questione troppo seria per essere lasciata nelle mani di Matteo Renzi e della sua “corte” (dei non-miracoli). Ben vengano allora interventi come quello di Armando Siri, responsabile economico di “Noi con Salvini, apparso su “Barbadillo” che sollecitano ulteriori analisi, approfondimenti e se necessario anche da qualche polemica.
Chiediamoci: il richiamo di Siri alla politica delle infrastrutture, peraltro già indicata dalla Ministra Federica Guidi, può essere sufficiente ?
Parlare di infrastrutture in linea di principio è necessario, ma è fuorviante se non si riesce a fare in modo che i cantieri non diventino delle voragini mangiasoldi, che i tempi siano rispettati, che la qualità dei manufatti sia conforme a quanto appaltato (e l’immagine di certi ponti siciliani, sbrecciati a pochi mesi dall’inaugurazione, la dice lunga sulle modalità di controllo delle opere …). E qui entriamo nello specifico di una crisi che non è eccessivo definire “di sistema” e che va coniugata con il tema cruciale della “legalità”. Inutile nasconderselo: intere aree del Mezzogiorno sono controllate dalla criminalità organizzata, che gestisce gli appalti, condiziona gli investimenti, ricatta le aziende. Vogliamo – con coraggio e chiarezza – porci il problema di quanto costa la criminalità in termini di mancato sviluppo nel Mezzogiorno? In che modo la criminalità si impossessa di specifiche aree di mercato e con quali effetti sulle regole della concorrenza? Quanto è diffuso il senso di insicurezza e di paura tra gli imprenditori meridionali ? Quanto questo “contesto” frena l’arrivo di investitori italiani ed esteri ?
Non sono quesiti retorici. Purtroppo è la realtà, così come emerge dalla Relazione annuale sulle attività dal Procuratore nazionale antimafia e dalla Direzione nazionale antimafia (gennaio 2015). Dietro sigle malavitose, quali Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita, si nasconde una complessa e soffocante ragnatela, in grado di avvolgere e soffocare territori, realtà produttive, amministrazioni locali: dal Porto di Gioia Tauro (diventato – secondo la Relazione – “una vera e propria pertinenza di casa della cosca Pesce e dei suoi alleati”) all’ espandersi metodico delle organizzazioni mafiose, strutturate per “mandamenti” (con investimenti nell’edilizia, nelle società finanziarie e nell’ambito commerciale, dove “ristoranti, bar e caffè vengono acquisiti da società di nuova costituzione, spesso con capitali sociali esigui, che fungono da schermo per gruppi mafiosi”), dalle estorsioni (attraverso danneggiamenti, incendi e minacce) fino al sistematico controllo di determinati servizi (con un’alterazione nel mercato che costringe “coloro che lo richiedono a corrispondere somme notevolmente superiori agli standard di mercato rilevati per analoghi servizi”), dai collegamenti, denunciati nella Provincia di Lecce, dei locali esponenti mafiosi con la Pubblica Amministrazione (“per ottenere concessioni, autorizzazioni e servizi”) al coinvolgimento di ambienti della criminalità organizzata nella gestione di aziende municipalizzate.
Pensare, in questo contesto, di riuscire a gestire la crisi meridionale in modo ordinario significa precludersi ogni possibilità di riuscita.
Ci vuole ben altro che qualche intervento “a pioggia” se non si ricostruisce un quadro generale di certezze nel campo della legalità, della trasparenza amministrativa, del rapporto cittadino-istituzioni.
E qui veniamo al tema degli Enti Locali. Inquinamenti malavitosi da un lato (pensiamo alle recenti polemiche sul Comune di Quarto, in Campania) e disarticolazione regionalistica dall’altro hanno oggettivamente indebolito la costruzione di organiche politiche territoriali. Si abbia allora il coraggio di prenderne atto, svuotando finalmente le Regioni del potere che hanno dimostrato di non sapere gestire, impostando interventi dimensionalmente all’altezza della sfida in atto. E dunque “piani di regia” sovra-regionali, che affrontino una volta per tutte le annose questioni legate alle infrastrutture (treni, autostrade, portualità), agli investimenti produttivi (finalmente liberati dai piccoli interessi politici locali), alla possibilità di essere concorrenziali sui mercati globali, al ruolo stesso del Mezzogiorno, ponte naturale dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo.
In estrema sintesi per affrontare, con un minimo di efficacia e di realismo, la nuova “Questione Meridionale” serve una “visione nazionale”, cioè un’idea di Stato autorevole, che controlli il territorio e ricucia il rapporto tra Istituzioni e cittadini; un’efficiente sistema burocratico, finalmente svincolato da ogni potere mafioso e partitocratico; un coinvolgimento diretto delle categorie produttive, in grado di mettere in circolo competenze, professionalità e risorse.
Se non si risolvono questi problemi “di fondo” ogni proposta appare purtroppo inutile.