A Taranto sono stato consigliere comunale, vice sindaco e deputato. Il 21 Novembre 1993 sono stato il candidato più votato fra i 640 delle 16 liste presentate all’elezioni comunali e nominato vice sindaco. Il 27 Marzo 1994 sono stato eletto deputato con la percentuale di collegio più alta, segno oggettivo di apprezzamento del mio operato. Invero, ho molto amato quella splendida, ma sfortunata città, protesa sullo Ionio, come una grande portaerei, fra la baia del mar Grande ed il bacino lagunare del mar Piccolo.
” Molle Tarentum “, l’appello’ Ovidio, alludendo probabilmente all’Indole sensuale e voluttuosa delle sue cittadine, esperte d’erotismo. Ma anche “Stalingrado d’Italia” per la combattività dei lavoratori del centro siderurgico, il più grande d’Europa, ivi installato contro ogni logica territoriale, economica e culturale. Come le vicende attuali dimostrano.

Taranto era una perla urbanistica e paesaggistica, abbracciata da due mari con ampie spiagge, un lungomare elevato come due giganteschi balconi ai lati di Piazza Ebalia, una vasta rotonda sul mare, un canale navigabile per le navi ospitate nei due porti, quello commerciale e quello militare, fronteggiata dall’isola amena di San Pietro. Con un fiorente e florido retroterra agricolo. L’arsenale, il commercio, la pesca, celebre per la rara e apprezzate “cozza pelosa”, il Museo Archeologico, Villa Peripato , le Scuole per sott’ufficiali di Marina ed Aviazione, costituivano un contesto economico e di lavoro sufficiente e ambientalmente compatibile, nonché elegante e gradevole. Era una città a misura d’uomo.
La sbornia marxista e progressista dell’Italia degli anni Ottanta, declassò a servili le attività economiche non industriali e coltivò l’utopia di “proletarizzare” l’intera società. Si punto’ a distruggere meticolosamente le risorse “parassitarie e borghesi” della bellezza panoramica e paesaggistica, inquinando con impianti petrolchimici i santuari del turismo, da Brucoli a Gela e Milazzo, da Manfredonia a Gioia Tauro e a Bagnoli, citando a caso, costruendo quelle che furono poi battezzate “cattedrali nel deserto”. Per le quali si sono sprecati migliaia di di miliardi, come per l’Italsider a Taranto. Eccitando così anche la voracità, la corruzione ed il clientelismo del ceto politico ed amministrativo, che trovo’ nella cosiddetta modernizzazione del Paese l’alibi di crescenti sprechi, peculati e malversazioni del denaro pubblico.
È la storia dell’Italsider, poi Ilva, concepita ed attuata nei tempi, oltretutto, delle chiare avvisaglie di crisi del mercato e della produzione dell’acciaio, con il fine perverso di dotare la Democrazia Cristiana di un formidabile strumento di proselitismo, consociando P.C.I. e P.S.I. , del resto spontaneamente consenzienti per i presumibili vantaggi politici, sindacali ed elettorali, indotti dal processo di proletarizzazione del Sud.
A fronte di tali appetiti ed obiettivi, nulla potevano valere e a nulla sono valsi le ragioni e le risorse dell’ambiente, gli interessi ed i diritti della comunità tarantina. Al “moloch” del Centro siderurgico sono stati sacrificati la bellezza, la salubrità e le potenzialità del territorio e del mare; sono state subordinate e degradate agricoltura e maricoltura; sono state declassate ed emarginate le attività artigianali; il commercio, dopo un apparente e precario vantaggio per l’accrescimento dei consumi collegato all’inurbamento, si trova strutturalmente compromesso, avendo perso in professionalità, autonomia e specificità per essersi reso dipendente rispetto alle alterne vicende delle maestranze industriali.
Il mito della “capitale dell’acciaio” , non solo ha avvilito e fatto deperire l’agricoltura, non solo ha determinato l’inquinamento del mare e del territorio, ma ha pregiudicato lo stesso sviluppo industriale dell’area tarantina, in cui sarebbe stato conveniente ed auspicabile promuovere la piccola e media impresa di trasformazione dei prodotti della terra e del mare; della ricerca scientifica e tecnologica; dell’utensileria, dell’arredo, degli infissi; delle strutture funzionali all’edilizia abitativa e ricettiva, (case, alberghi, luoghi di ristorazione e di diporto, villaggi turistici), che potevano e dovevano moltiplicarsi, se si fosse provveduto alla valorizzazione turistica dell’incomparabile paesaggio e dello splendido mare di Taranto.
Invece, alle soglie del 2020, Taranto è nuda, povera e ferita.
L’industria è in disarmo, l’agricoltura ed il commercio declinano, l’artigianato inconsistente; il mare e l’aria sono inquinati; il litorale degradato ed il turismo inesistente; la città è cadente e dolente. Con nessuna speranza all’orizzonte. Povera Taranto! Povera Italia!