Non bastava che allo scorso concerto del Primo Maggio un siparietto su “diritti civili” e questioni arcobaleno abbia oscurato quello che dovrebbe il tema principale dell’evento: il lavoro (e soprattutto i lavoratori). Non pago di aver ribadito, lo scorso gennaio, che è giusto che “il sistema” convinca i giovani (dei quali, secondo Gramellini – che sta al giornalismo come Letta jr. alla politica – è il paladino) che il lavoro a tempo indeterminato non è un diritto, pochi giorni fa il peggior segretario del Partito Democratico (ex aequo con Orfini) ha lanciato la gran trovata della “dote 18”: una (pesante) tassazione sulle successioni dei grandi redditi, per dare un assegno ai neo-maggiorenni, un piccolo “reddito di cittadinanza” per diciottenni.
Che parli da capitalista selvaggio, come a gennaio, o da pauperista, come a maggio, il pisano-parigino Enrico Letta si dimostra coerente: per la totale noncuranza riguardo il diritto al lavoro, e per il livello di entrambe le dichiarazioni.
La trovata della “dote” è irricevibile: perché è un modo disonesto di fare populismo, infischiandosene dell’ormai sopraggiunta distruzione del mondo del lavoro e nascondendola con la foglia di fico d’un assegno; perché è un ammiccamento ruffiano ai ragazzi (al livello dei radicali che promettevano la liberalizzazione della droga in cambio di voti); perché è una totale mancanza di riguardo nei confronti dei giovani che non troveranno lavoro, e degli anziani che hanno lavorato.
Gli uni, vittime dei soliti pifferai di Hamelin che li imboniscono. Gli altri, additati quali responsabili di tutti i problemi vissuti dalle generazioni successive (dal collasso del sistema previdenziale a quello dell’ambiente), si vedono accusare di essersi arricchiti senza curarsi delle conseguenze a carico dei posteri.
L’odio verso chi ha fatto carriera è la consolazione dei pigri e dei mediocri: non è una coincidenza, se la parte peggiore della nazione è anche quella che ha plaudito alla boutade di Letta – la parte d’Italia formata dagli anti-italiani, dai qualunquisti, dai poveracci (non è un riferimento al reddito di chicchessia), dai nullafacenti che impiegano per condividere minchiate su Facebook il tempo che potrebbero “sprecare” a leggere qualcosa. Non era di sinistra l’abominevole dichiarazione, in pieno stile Davos (iper-liberismo spacciato per “finanza etica”) di gennaio, e non lo è nemmeno quella della scorsa settimana: un ammiccamento, molto grossolano, al parassitismo da centro sociale e soprattutto agli alleati del Movimento Cinque Stelle, giusto per farsi restituire da essi un poco di consenso (sia mai che recuperino quell’enorme serbatoio di voti che hanno dilapidato in nemmeno tre anni al governo). Non c’è nessuna differenza tra l’umiliante “paghetta” che Letta propone di trarre dalle successioni, i “Vaffa-day” su cui Grillo ha costruito il pubblico elettorale del Movimento Cinque Stelle, e il vergognoso referendum dello scorso autunno, quello con il quale in assenza di iniziative serie si spacciava il taglio dei parlamentari per svolta storica nella politica italiana.
La “dote 18”, criticata dall’Italia che lavora (con grande scorno di Letta, che è andato a lamentarsi anche da Fazio), ha riscosso il plauso dell’Italia che zavorra: i devoti della banalità, gli entusiasti della semplificazione, i tifosi dalle vedute ristrette. Sono quelli che riducono la visione del mondo a frasi fatte: i politici sono maneggioni, la Chiesa si sa com’è, in fondo sono tutti uguali, Trump un pazzo con la parrucca Johnson uno scemo spettinato e la Brexit la pagheranno cara, tanto si sa poi come va a finire, eh boccaccia mia statti zitta, siamo in Italia, ah il paese del malaffare, va sempre bene ai soliti.
Va bene a quelli che si rimboccano le maniche, ma una certa parte di popolazione fa finta che non sia così: non è una risposta di comodo. Così ha buon gioco Letta jr. a tornare alla carica con battutacce sarcastiche (e, come disse Voltaire l’unica volta che ebbe ragione: il sarcasmo è la versione volgare dell’umorismo), dicendosi solidale con l’1% degli italiani. Quelli che hanno fatto carriera, che hanno realizzato qualcosa, che hanno costruito la nazione. A Letta non importa, portano pochi voti: meglio accodarsi all’astio crescente verso la qualità – la meritocrazia è sempre più bersagliata da sinistra, si vedano i sessantottini rincoglioniti dagli acidi (quelli che carriera l’hanno fatta, grazie al cognome e al diciotto politico) che saltano fuori a vantarsi d’averla abbattuta a “colpi di fionda”, sino a un libro appena pubblicato da Feltrinelli. La sinistra di Letta combatte il privilegio, privilegiando i peggiori.
In un’ottima commedia italiana, “Come un gatto in tangenziale” (protagonista Paola Cortellesi, diretta dal marito Riccardo Milani nel 2017) Giovanni, il personaggio di Antonio Albanese, si scaglia continuamente contro lo stereotipo “è tutto un magna magna” e, in uno scontro con Sergio (il terrificante galeotto interpretato da Claudio Amendola), contro “la retorica delle mani sporche”: con tutte le sue idiosincrasie da “radical chic” che blatera dei problemi delle periferie stando comodamente rinchiuso nel suo salotto di lusso, Giovanni ha ogni ragione di rinfacciare a Sergio che le lamentele sulla corruzione della politica e sui malaffari più o meno presunti dei privilegiati sono soltanto scuse per non darsi da fare, per non migliorare nulla e continuare a crogiolarsi in situazioni degradate dando la colpa a qualcun altro. Quattro anni dopo, nei bersagli dell’invettiva di quel film si riconosce la claque della dote di Letta.
Grazie a Enrico Letta, si finisce per essere grati a Matteo Renzi. Pur condotte con i machiavellismi riprovevoli e le maniere sgarbate proprie del personaggio, le manovre (comunque giustificate sia dal con le quali il Fonzie toscano fece cadere il governo Letta gli varrebbero un ringraziamento – non fosse che il successivo esecutivo Renzi fu affollato dai volti peggiori della storia della sinistra italiana: Mogherini, Lorenzin, Pinotti, Boschi, Madia, Martina, Delrio. Il triennio renziano fu un brutto momento per la politica italiana, ma almeno il suo inizio comportò la fine della tutt’altro che entusiasmante esperienza del mandato del nipote di Gianni Letta.
Quella di Renzi non era politica di qualità, ma che il bullo fiorentino avesse visioni più ampie e capacità strategiche più evolute del suo conterraneo ed ex compagno di partito è ovvio e risaputo (lo dimostrano anche i suoi magheggi più inquietanti). Che il maggior partito della sinistra italiana sia guidato da Enrico Letta è un grave danno, non soltanto per il convalescente Partito Democratico, non soltanto per la sinistra: per tutta la politica italiana, perché comporta un drastico scadimento delle proposte, del dibattito, delle idee.