Già nella premessa al poderoso volume “Patria senza mare”, Marco Valle, scrittore, giornalista e analista sopraffino, fa capire al lettore l’importanza di uno studio così complesso come quello sul Mediterraneo, edito dopo anni di laboriose e complesse ricerche. “Il mare nostrum, uno spazio ristretto tra due oceani e tre continenti da sempre fucina di Civiltà e conflitti, arteria del sistema mondo, luogo simbolo dell’attuale disordine planetario, ma anche come indicava Ennio di Nolfo, eventuale crogiolo di un soggetto nuovo, ancora poco definibile ma tale da poter essere intravisto come possibile sviluppo futuro”.
Se è vero, come ricorda Lucio Caracciolo, che “la storia punisce chi non usa la geografia, perché finisce per esserne consumato”, Marco Valle, senza giri di parole, va dritto al punto: “Ogni volta che abbiamo ignorato gli avvenimenti di storia e geografia, dimenticando il mare per ripiegarci in orticelli terragni, il conto è stato salatissimo”. E’ accaduto con l’ascesa e il declino delle grandi repubbliche marinare di Genova e Venezia, a cui Fernard Braudel applicò il paradigma di économie monde per segnalarne la spinta globalista lungo le rotte dell’Est e quelle dell’Ovest.
Cristoforo Colombo e Marco Polo. Le due grandi direttrici mercantili: Atlantico e la “via della seta”. Dopo quell’epoca di ardite scoperte e di opulenti commerci, si impiegarono tre secoli per riscoprire le potenzialità del nostro mare. Nel mezzo, una devastante penuria, un mortificante declino. Ci volle Cavour per rimettere le cose a posto e restituirci “una dimensione marittima” e una “strategia navale globale”. Prima come ministro della Marina del regno Sardo e, dal 1861, del regno d’Italia, Cavour riuscì a ridare lustro ad una “eredità preziosa che nel tempo sorresse la modernizzazione italiana e l’effervescente periodo della prima industrializzazione”.
Marco Valle non ha dubbi. “La marittimità italiana – scrive – è (o, meglio, dovrebbe essere) una priorità della nostra narrazione nazionale. Piaccia o meno nel Mediterraneo l’Italia ha sempre trovato il segno del proprio destino poiché ne costituisce l’asse mediano e le è dunque naturale il sogno e la possibilità di dominare quel mare in tutta la sua estensione (Braduel dixit) e proprio nel continente liquido risiedono i primari elementi politici, economici, militari su cui si regge l’intero sistema-Nazione, una somma di fattori che, piaccia o meno, c’impediscono di rannicchiarci attendendo che la tempesta passi; se non vogliamo affogare fra i gorghi dell’incombente tsumani geopolitico e geoeconomico (ma anche sociale, ambientale, sanitario etc.) è necessario ragionare sulla trasformazione in atto, analizzandone le dinamiche per cercare di coglierne i rischi le trappole ma anche le opportunità, i possibili vantaggi”.
Tutti i dati confermano questo assunto. Il Fondo monetario internazionale, nel 2018, fissa nell’equivalente di oltre duemila miliardi di dollari il volume di beni e servizi e registra un avanzo nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti di oltre 50 miliardi di dollari (esportiamo più di quanto importiamo). Nella classifica mondiale l’Italia è ventitreesima per popolazione, ottava per Pil, decima negli scambi con l’estero (ma ottava escludendo Russia e Arabia Saudita che esportano prevalentemente energia). Attraverso il Mediterraneo transita il 20 per cento del traffico commerciale mondiale, il 25 dei container, il 30 del traffico petrolifero. Attraverso i canali di Sicilia, Gibilterra e Suez arrivano nei nostri porti tubi e cavi sottomarini che garantiscono calore e collegamenti internet. La nostra flotta mercantile è l’undicesima del mondo e tra le più avanzate tecnologicamente. Poi la pesca (abbiamo la terza flotta europea), i porti, la cantieristica, la nautica, il turismo.
Per non parlare della Marina militare: “un’eccellenza nazionale che, dallo scenario regionale sino all’Oceano Indiano e il golfo di Guinea cerca di garantire presenza, traffici e interessi permanenti dell’Italia del mare”. Del Mediterraneo dovremmo cogliere, al netto di ogni retorica europeista, la straordinaria forza propulsiva. E’ l’unica opportunità che abbiamo per “difendere la nostra vocazione mercantile e rilanciare una proiezione d’influenza geopolitica autonoma”. Marco Valle ha ragione. Abbiamo bisogno di “strategie e politiche articolate e, innanzitutto, di una visione marittima, di una cultura del mare. Di una narrazione. Di una Storia. Ed è proprio quello che manca all’Italia. Ieri come oggi”.
Storia e cultura si intrecciano superbamente lungo il percorso che Valle offre al lettore. Un viaggio attraverso i secoli, un viaggio affascinante, coinvolgente, documentato, zeppo di spunti riflessivi e di puntuali, indovinate citazioni, una summa del pensiero filosofico, letterario e poetico che ha scandito lo spirito del mare e, all’opposto, il “sentimento d’estraneità” di cui testimoniava già duemila anni fa Tito Lucrezio Caro nel secondo libro di “De rerum natura” e che, fatta eccezione per Dante, spiega la disattenzione in genere della letteratura italiana verso la dimensione marittima della Penisola.
“Dopo il fiorentino nessuno tra i grandi letterati, tutti cocciutamente terrigni, sembrò più accorgersi del mare”. Persino Francesco Petrarca, che pure fu “un entusiasta viaggiatore”, finì con il rifiutare per sempre le vie del mare. Dopo aver assistito il 25 novembre 1343 a Napoli a un terribile maremoto, causato da un’eruzione dello Stromboli che distrusse il litorale campano e in particolare Amalfi, ponendo così fine al suo ciclo marinaro, il poeta-scrittore non ne volle più sapere di salire su un qualsivoglia naviglio. Valle ricorda un aneddoto. Quando nel 1358 il milanese Guido Mandelli lo invitò ad accompagnarlo in Terra Santa, Francesco Petrarca preferì declinare l’offerta e inviò all’amico l’Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem, una vera e propria guida da viaggio attraverso un Mediterraneo di fantasia. Nel prologo il poeta confessava con ironia il suo insuperabile timore per i marosi.
Ai dotti del Medioevo e del Rinascimento, evidentemente, poco o pochissimo interessavano vascelli e marinai. Mentre Luis Vas de Camoes scriveva “Os Lusìadas”, l’epico poema dedicato all’espansione transmarina lusitana, nessun poeta italico si emozionò per le gesta di Colombo, Giovanni e Sebastiano Caboto, Verrazzano, Vespucci e degli altri navigatori nostrani. L’unica eccezione, riconosce l’autore del suntuoso volume, fu Ludovico Ariosto, che dedicò al grande ammiraglio Andrea Doria un luminoso cammeo nel XV canto dell’Orlando furioso.
Letteratura a parte, la narrazione ci offre lo spaccato di una storia lunga e tormentata dove il mare nostrum è protagonista, centrale, luogo di furiose battaglie, di straordinarie avventure e formidabili scoperte, di naturali e umani accadimenti che ne segnano il destino, ne corroborano il ruolo, fagocitando cambi d’epoche e alternanze di domini, attraverso flotte, vascelli, coraggiosi capitani e intemerati marinai.
Come fu certamente il “viaggio al termine dell’Impero” descritto nel prezioso diario vergato nel 417 da Claudio Rutilio Namaziano, patrizio romano costretto dal dissolvimento dell’impero d’Occidente e dallo spezzettamento politico della Penisola in domini bizantini, goti, e poi longobardi, franchi e arabi, a optare per le vie del mare, ad imbarcarsi e risalire il Mediterraneo da Portus Augusti (presso Fiumicino) sino alle foci del Rodano. Oppure l’epopea delle Crociate, volute da Papa Urbano II il quale, nella allocuzione conclusiva del Concilio di Clermont in Alvernia, esortò i nobili a interrompere le guerre feudali e dirigersi verso la Terrasanta per aiutare i fratelli d’Oriente a liberare il Santo Sepolcro dagli esosi pedaggi imposti dai califfi. Da attento studioso di storia, Valle precisa che “in realtà il callido Urbano aveva mire più immediate e concrete – salvaguardare i delicati equilibri continentali lacerati dalla lotta per le investiture tra Papato e impero e riportare Costantinopoli nella sfera romana – tant’è che il suo discorso non venne nemmeno trascritto dagli scribi papali, ma le sue parole, vere o presunte, entusiasmarono i turbolenti cavalieri d’Europa. Finalmente per tutti loro – una somma di falliti di successo…- un obiettivo luminoso: il salvacondotto celeste attraverso il combattimento. Pentitevi e armatevi. E partite. Subito”. Prese così forma quella che Franco Cardini ha definito una “realtà proteiforme in cui si intrecciano fede cristiana e necessità di arricchimento”. Seguirono due secoli di battaglie, compromessi, mediazioni e scontri. Con gli arsenali che si riempivano di galee e navi per le flotte, a partire da quegli arsenali genovesi, i primi ad approfittare della “formidabile finestra d’opportunità”.
L’autore gradualmente ci conduce al tempo del mundus furiosus, come l’abate tedesco Michael Isselt, più noto come Jaunsonius, chiamò il Cinquecento. Valle la descrive come un’epoca fervida d’ingegno, prodiga di contrasti, armoniosa e feroce, illuminata e raffinata, ma anche imbarbarita e disperata. L’epicentro, ancora una volta, fu il Mediterraneo. Il mare che, nel ricordo di Roger Crowley, fu “teatro di una guerra mondiale, lo spazio dove ebbe luogo uno dei più feroci scontri: la lotta tra Islam e Cristianesimo. Una guerra di lunga durata”.Il Cinquecento fu anche il secolo di Cristoforo Colombo e Magellano, di Amerigo Vespucci, dei veneziani Giovanni e Sebastiano Caboto, dell’empolese Andrea Corsali che si spinse sino alla Nuova Guinea, di Giovanni da Verrazzano, toscano anche lui, il primo ad entrare nella baia di New York. “Magnifiche eccellenze italiane che s’avventuravano con crescente ardimento e sempre più cognizioni navali nella grande avventura transoceanica aperta dai Vivaldi. Verso l’ignoto, su mandato di sovrani stranieri, su caracche e caravelle castigliane, lusitane, francesi, inglesi. Un quadro epico ma, a ben vedere, sconsolante”, è la bella descrizione e l’amara riflessione dell’autore di “Patria senza mare”. Valle riporta la lettura di quell’epoca che ne diede Pino Rauti: gli italiani furono i primi a gettare lo sguardo verso l’Oriente, i primi anche in Africa (perché sembra sia stato il genovese Malfante a superare il Sahara nel 1448), ma restarono rapidamente indietro nell’onda espansionistica che pervase come una febbre tutto l’Occidente tra il XV e il XVI secolo.
Dal mundus furiosus alla Traslatio Imperii. Lo studioso e l’analista non trascura nulla delle vicende che scandirono l’avvento sulla scena della storia di nuovi attori, né del conseguente arretramento del “sistema Italia” in quello snodo di epoca, aperto dalle nuove rotte oceaniche e dal sorgere dei grandi imperi coloniali nelle Americhe. Anche se ci fu uno spostamento del baricentro politico ed economico dal “continente liquido” verso l’Atlantico, il mutamento fu graduale, non repentino. Nonostante lo stagliarsi di nuovi orizzonti ultramarini, il grande Mare Interno “restava sempre un giacimento immenso di ricchezze e un crocevia dei mercati mondiali”.
La narrazione che ci offre Marco Valle si inspessisce e dipana lungo le rotte tracciare dai grandi navigatori e dal vorticoso affastellarsi di eventi scolpiti nella storia di condottieri, popoli, eserciti, diplomatici, politici, mercanti. Tra esaltanti imprese, eroiche gesta e amari tramonti. La sua è la Storia completa di una Nazione e del suo Mare, dalle origini fino ai giorni nostri. Una storia descritta con il garbo di un letterato, il puntiglio dello storico, la curiosità del ricercatore. Anni di studio alle spalle. Un formidabile compendio di una profonda passione dedicata alla scoperta del Mediterraneo, alle velleità e alle potenzialità della grande Italia marittima, alle ore buie e a quelle esaltanti. Alla “paura che ci fa quel mare scuro”, come efficacemente intitola il capitolo conclusivo del suo poderoso volume (più di 500 pagine dalle quali non riesci a staccarti). Una paura da vincere e annullare. Nonostante tutto. “Per i terragni rimane più comodo restare aggrappati alle Alpi e volgere la schiena alle onde. Sfuggire al nostro destino e interrarsi. Poco importa se il naufragio è prossimo. Eppure, oggi come ieri, navigare necesse”. Come si potrebbe dargli torto?
Marco Valle, Patria senza mare, Signs Books, Milano, 2022. Pp. 544, euro 25,00