La sfida per il Mediterraneo non è mai finita. Si è considerato per molto tempo un mare destinato a essere sempre meno importante, lontane dalle logiche commerciali dell’esplosione asiatica o dalle grandi rotte oceaniche. Molti esperti ritengono che il futuro potrebbe addirittura essere più nero, con le rotte polari in grado di sconvolgere l’economia del Mare Nostrum. Eppure questo mare così piccolo racchiude in sé un’importanza cruciale per i destini del mondo. Già solo per il “semplice” fatto di unire tre continenti e di rappresentare il crocevia di culture, popoli, religioni e grandi interessi economici, energetici e politici. Una sfida nella sfida, blocchi contro altri potenze, culture che si contrappongono o assimilano altre. Ma in questo mosaico di sfide ce n’è un’altra che riguarda non solo chi si affaccia su questo mare, ma tutto il mondo: la sfida tra concezioni del Mediterraneo. Perché per capire gli equilibri di questo mare, prima di tutto va compreso cosa ne pensano le grandi potenze.
Per i Paesi che ne sono avvolti, come per l’Italia, il Mediterraneo è in larga parte tutto: arrivo e partenza, luogo di interscambio e vita. Ma per chi è lontano migliaia di chilometri, cosa è il Mediterraneo? Limes, come confermato dal recente incontro di Trieste, ha coniato il termine di Medio-oceano per indicare un mare di passaggio: un canale, un enorme via d’acqua per collegare Atlantico e Oceano Indiano. E questo punto di vista è molto simile a quello che di questo Mediterraneo ha l’America, che sostiene da sempre il controllo del Mare Nostrum sia come barriera rispetto all’arrivo di altre potenze sia come teatro di flussi commerciali che non devono essere interrotti. E che collegano i due enormi specchi d’acqua. Se per la Russia il Mediterraneo è il “mare caldo”, elemento di espansione della propria potenza e della propria influenza, e se per la Cina è l’approdo verso i grandi mercati d’Europa come già avveniva ai tempi della Via della Seta (e quindi per nuove terre di conquista), per gli Stati Uniti il Mare Nostrum è soprattutto una rotta: una fondamentale via di comunicazione che permette all’Occidente di unirsi all’Oriente e non interrompere mai quello scambio che è non solo economico, ma anche politico.
Sbaglia chi considera gli Usa lontani o sempre più lontani dalla mischia mediterranea. Gli Stati Uniti possono anche fare a meno del controllo di alcune aree continentali dell’Europa, posso cedere di fronte alle spinte centrifughe di alcuni Stati, ma non possono fare a meno di controllare il mare. La loro cultura strategica è quella data dall’interpretazione dell’ammiraglio Alfred Thayer Mahan, che ha fatto proprio e ampliato il concetto del controllo del dominio marittimo come chiave per il potere nel mondo. Il controllo degli stretti, i cosiddetti colli di bottiglia, è il termometro per capire il livello di potere di uno Stato. E se questo il Mediterraneo è uno “stretto”, si comprendere perché gli Stati Uniti non potranno mai farne a meno. Le basi spagnole, in Italia, la Grecia – con l’accordo per nuove basi da Creta fino al territorio continentale – la Turchia (che non lascerà facilmente andar via dalla Nato) fino a Israele rappresentano una immensa costellazione di basi tese a controllare una rotta, quella che collega Suez a Gibilterra. La sfida è solo all’inizio: ma quello che è certo è che se per la Cina il Mare Nostrum è un punto d’arrivo, per gli Stati Uniti è un passaggio. E come tutti i passaggi, eredi della tradizione imperiale britannica, deve essere libero.