“Raccontare per la prima volta al cinema questa vicenda così drammatica per troppo tempo dimenticata da tutti era una sfida troppo importante per dire di no”.
Così Maximiliano Hernando Bruno, il regista di Red Land-Rosso Istria, spiega la scelta di esordire alla regia con una storia scomoda e anche professionalmente pericolosa, in un mondo come quello del cinema italiano ancora succube dei rimasugli dell’egemonia della cultura di sinistra, oramai ridotta ad una grottesca caricatura di sé stessa, e nel quale il banale conformismo dell’antifascismo da salotto è sempre in agguato, pronto a trasformarsi in censura e boicottaggio.
I precedenti erano poco rassicuranti e il coraggio nell’affrontare il rischio dell’anatema politicamente corretto proprio all’inizio della carriera non può che essere un ulteriore e maggiore merito del giovane regista italo argentino.
Nel 1992 “Gangsters”, un bel film di Massimo Guglielmi che racconta una vicenda di delitti partigiani a guerra finita, fu escluso dal Festival di Venezia da Gillo Pontecorvo (grande regista ma ex gappista e militante comunista) e non trovò nessuno disponibile alla distribuzione nelle sale cinematografiche. Mai passato nemmeno in televisione, lo abbiamo visto in pochi solo grazie al DVD.
E’ andata un po’ meglio, ma non molto, a “Porzus” di Renzo Martinelli, che narra la vicenda dell’eccidio dei partigiani bianchi della Brigata Osoppo ad opera di comunisti italiani al servizio di Tito. Girato nella zona dei fatti tra mille difficoltà e divieti, fu presentato tra violente polemiche a Venezia nel 1997 rimanendo anch’esso senza distribuzione. La Rai ne acquistò i diritti ma solo per lasciarlo marcire per anni in magazzino in una forma particolarmente subdola di censura. Solo nel 2012 il film è riuscito finalmente a passare fugacemente su Rai Movie.
Solo la conformità alle direttive del sinedrio culturale dominante permette di portare sullo schermo e tra il pubblico storie scomode. Come nel caso di Giuliano Montaldo, regista ed intellettuale comunista, che nel 1961 esordiva alla regia con la trasposizione cinematografica di “Tiro al piccione” di Giose Rimanelli, caso quasi unico di romanzo di grande valore letterario sull’esperienza della guerra civile vissuta dalla parte della RSI, scritto quasi un presa diretta ed arrivato, dopo alterne vicende, al grande pubblico grazie alla lungimiranza di Cesare Pavese (NDR: lettura consigliatissima).
Il film di Montaldo, però, stravolge completamente il romanzo, infilandosi nella più scontata, mediocre e a tratti ridicola narrazione resistenziale, con i fascisti tutti caricature malvagie e psicopatiche e i due protagonisti (nel romanzo combattono per la RSI sino all’ultimo e senza pentimenti) che si redimono in una improbabile catarsi antifascista grazie alla quale uno passa ai partigiani e viene fucilato dai fascisti (mentre nel romanzo era esattamente il contrario) e l’altro “prende coscienza” e rinnega le sue scelte. Banale operazione di propaganda politica all’epoca coperta di gloria ed onori ed ancora oggi paradossalmente definita dalla critica (rimasta conformista ed asservita) “coraggiosa e anticonformista” solo per avere malamente affrontato l’argomento.
Red Land-Rosso Istria, però, è riuscito in qualche modo a sfuggire al destino dei suoi predecessori.
Approdato fortunosamente alla Biennale del Cinema di Venezia grazie alla Regione Veneto, che lo ha ospitato in una manifestazione collaterale dopo la solita bocciatura degli organizzatori ufficiali (secondo i quali c’erano già troppi film in programma), la pellicola ha poi trovato anche una limitata (25 sale per un solo week end) ma tutto sommato utile distribuzione che per la prima volta in 70 anni ha permesso di portare la vicenda di Norma Cossetto a contatto di un pubblico più vasto di quello normalmente sensibile alle vicende dell’Esodo e delle foibe. Avere aperto una piccola breccia nel muro di gomma della censura culturale non è l’unico merito del lavoro di Maximiliano Hernando Bruno.
Va senz’altro sottolineata la accurata e fedele ricostruzione del contesto e delle cause che hanno portato alla tragedia delle foibe. Senza prendere apertamente una posizione politica e senza dimenticare le ragioni storiche e sociali, il regista mette chiaramente in evidenza la vera causa scatenante della furia criminale dei partigiani slavi di Tito, vale a dire la pulizia etnica ordinata dal maresciallo per cancellare una volta per tutte la presenza italiana da zone italiane da sempre.
Come accadeva in tutta l’Istria e la Dalmazia a Visinada, il piccolo borgo rurale dove viveva Norma Cossetto e dove si svolge la storia, i partigiani comunisti del criminale Mate dopo avere messo le mani sulle liste dell’anagrafe comunale prelevano sistematicamente, torturano e massacrano gli Italiani in quanto tali mettendoli di fronte ad una sola alternativa: andarsene o finire dentro una foiba.
Una contrapposizione, quella tra Italiani e Slavi, che il regista ripropone anche nelle file partigiane, con i comunisti e i disertori italiani che si mettono al servizio dei comunisti Jugoslavi i quali, però, li trattano da servi facendogli capire che tanto al momento opportuno anche a loro toccherà la stessa fine di tutti gli altri italiani.
Qui però il racconto diventa un po’ troppo indulgente, distaccandosi dalla realtà storica. Nel film i comunisti italiani dopo avere tradito la Patria, la famiglia, le amicizie tentano di redimersi tardivamente, cercano di fermare i criminali titini e vengono uccisi per questo esattamente come quelli che avevano tradito. Sappiamo però che storicamente le cose non sono andate così: i partigiani Italiani e comunisti non rinnegarono mai le loro scelte, continuarono a combattere dalla parte di Tito contro altri Italiani, senza sconti a nessuno ed anzi spesso superando in brutalità e crudeltà i loro padroni Jugoslavi.
Nel 1945 parteciperanno attivamente all’occupazione di Trieste ed alla seconda e ben più tragica ondata di pulizia etnica dopo avere con molto zelo portato a termine per conto dei loro compagni titini molti altri lavori sporchi, come quello di Malga Porzus. Anche per questo per decenni il PCI e la sinistra resistenziale hanno cercato di occultare e seppellire la scomoda verità delle foibe.
Un peccato veniale comunque che, come anche qualche stereotipo nella caratterizzazione dei personaggi e qualche ingenuità narrativa, non scalfisce minimamente il valore complessivo di un lavoro che ha anche il merito, non secondario, di mostrare ad un pubblico più ampio, in modo diretto e molto efficace, senza sconti e senza pietà, tutta la brutale realtà dei fatti e tutta la crudeltà dei comportamenti dei partigiani di Tito, dipinti per anni dalla vulgata filo partigiana come bravi compagni della lotta antifascista da ringraziare e venerare anziché condannare.
“Spero che questo film abbia successo, ma soprattutto che serva dopo quasi 80 anni a far conoscere questa tragedia fino in fondo e che apra la strada al racconto di tante altre storie come questa che finora nessuno ha raccontato” si augura Maximiliano Hernando Bruno.
Speriamo che qualcuno, magari dalle parti del ministero competente e degli organismi che erogano finanziamenti a pioggia a filmetti insulsi del solito giro di amici-parenti-amanti dei salotti politicamente corretti sia in ascolto.