Il pacco regalo confezionato dalla DDA di Torino, cioè l’arresto di Roberto Rosso, guasterà probabilmente il Natale in casa Meloni, dove ci si apprestava a festeggiare il Natale politico in allegria e con tanti bei regali sotto l’albero.
Un pasticciaccio piovuto tra capo e collo di FDI proprio nel momento migliore della sua storia, con tutti i sondaggi, quelli seri e quelli meno seri, quelli veri e quelli pret a porter, che indicano da settimane un partito in grande crescita ed oramai vicino alla doppia cifra, complici il ridicolo e pericoloso andazzo del governicchio giallo rosso, la oramai avanzata decomposizione di Forza Italia e, probabilmente, anche un certo disincanto nei confronti di Matteo Salvini, del quale – oltre tweet e selfie – si intravedono i limiti politici.

Un risultato impensabile solo pochi mesi fa, quando era in dubbio persino il quorum alle elezioni europee.
Lasciando che la giustizia faccia il suo corso, quello che conta di questa vicenda è l’aspetto politico. Per quelle che la leader di FDI ha definito “accuse da vomito” Rosso è stato immediatamente ed ufficialmente buttato fuori dal partito con tanto di minaccia di costituirsi parte civile nell’eventuale processo, una pezza inevitabile ma forse tardiva. Il vero problema non è l’uscita di Rosso da FDI, ma capire come e perché ci sia entrato.
Il comunicato ufficiale ci racconta un po’ sibillinamente che “Roberto Rosso ha aderito a Fratelli d’Italia da poco più di un anno, chiedendo di essere candidato nelle nostre liste”, come se per aderire bastasse fare domanda per poi essere automaticamente candidati, tipo una bocciofila: si fa la domanda di iscrizione, si paga la quota, si diventa soci e si comincia giocare.
Quando viene accolto col tappeto rosso nel partito il suo lungo e variegato curriculum politico è ben noto e molto lontano da quello che ci si aspetterebbe di trovare in un partito che si proclama erede della tradizione politica del MSI di cui conserva, più come un brand che come un valore, il simbolo.
E’ il percorso di un piccolo ras politico di provincia, di un opportunista abituato a galleggiare ad ogni costo accasandosi ovunque fosse conveniente: nato democristiano dopo l’affondamento della balena bianca, come molti altri, si trasferisce armi e bagagli in Forza Italia, dove da fedelissimo berlusconiano di seconda fila sguazza per molti anni tra Parlamento, Regione e sottogoverno per poi partecipare addirittura allo sgangherato progetto politico finiano di Futuro e Libertà, che però abbandona presto in cambio di un posto da sottosegretario generosamente elargitogli da Berlusconi.
Poi qualche guaio giudiziario, finito bene, l’implosione del PDL, la perdita del seggio in Parlamento e del peso politico e l’inevitabile caduta nel cono d’ombra saltabeccando invano in cerca di sopravvivenza politica tra le inutili schegge “moderate”. Al momento dell’arruolamento nella truppa della Meloni, però, nessuno ci fa caso e lui riesce a piazzarsi resuscitando politicamente: conquista un seggio alla Regione, dove viene nominato assessore, e diventa capogruppo al Comune di Torino. Una spiegazione ce la fornisce lo stesso comunicato dell’espulsione: “abbiamo deciso di sottoporre anche il suo nome al giudizio degli elettori piemontesi. E’ stato il più votato nelle nostre liste, e per questo è diventato assessore regionale“.
Secondo Guido Crosetto, fondatore e coordinatore nazionale di FDI (ma disposto a marciare con L’ANPI il 25 aprile) anche lui piemontese, ex democristiano ed ex forzista, “Rosso è uno che farebbe qualunque cosa per prendere un voto, porterebbe un moribondo al seggio ma non mi sembra uno che possa intrattenere rapporti con la mafia o ‘ndrangheta”. La DDA torinese, però, la pensa diversamente e su quel “qualsiasi cosa” ha idee ben precise; ora anche all’interno di FDI qualcuno ammette riservatamente e a denti stretti di essere stato messo in guardia, ma evidentemente chi decide non ci aveva fatto caso o aveva valutato che un bel pacchetto di voti valesse bene qualche rischio.

Già i voti, la vera spiegazione di tutto. C’è la ricerca spasmodica di voti e consenso, con una logica più aritmetica che politica, dietro a certe scelte (miopi e incoerenti) che portano a spalancare le porte a chiunque mostri la capacità di attirarli, senza andare troppo per il sottile. E’ l’inevitabile corollario dell’idea del partito-contenitore aperto a chiunque ci stia, nata più dalla necessità di sopravvivenza e di sfruttamento di situazioni contingenti, come lo sfarinamento del berlusconismo, che da un vero disegno politico.
Un approccio che ha portato all’arruolamento di una ciurma variegata ed improvvisata ad alto tasso di opportunismo e qualunquismo, con obiettivi personali più che politici ed interessi molto concreti e poco ideali. Un fenomeno destinato a gonfiarsi ulteriormente con la crescita (potenziale) dei consensi, che porterà al classico effetto bandwagon, ovvero la rincorsa al carro più o meno vincente in cerca di sbocchi personali, collocazione, poltrone, poltroncine e strapuntini.
Ai piani alti di FDI, partito fortemente gerarchizzato dove non esistono dissenso e confronto (chi non si allinea o esce da solo o viene buttato fuori) capi e capetti, tutti più o meno reduci dal fallimento, mai seriamente considerato, di AN/PDL ripetono fino alla noia che in politica contano solo il consenso (cioè i voti) e la “rappresentanza” (cioè seggi e poltrone) e che tutto il resto o non conta, o non serve o è sacrificabile.
E’ così che un professionista della peggiore politica politicante come Roberto Rosso è entrato dalla porta principale, come certi maggiordomi di Gianfranco Fini riaccolti amorevolmente come figliuoli prodighi (qualcuno già spedito in parlamento, molti altri in attesa del loro turno e pronti a scattare) o come quelli che rimasti al sicuro in Forza Italia finchè faceva comodo hanno improvvisamente riscoperto le comuni origini e i vantaggi del cosiddetto “ritorno a casa”.
Oggi in FDI si prende tutto e non si butta via niente (a parte i non allineati) salvo poi scoprire, quando è troppo tardi, il “voltastomaco” provocato dai nuovi compagni di strada. Oltretutto per far posto a convertiti, esodati, moderati, trasformisti, raccomandati, cavalli di ritorno, portatori (non si sa quanto sani) di consenso, si sacrificano militanti che in questi anni hanno tirato la carretta permettendo di tenere in piedi il partito.
Il quale, senza fare una piega, ringrazia, spiega che non si fa politica senza consenso, invita ad adeguarsi senza tante storie e saluta cordialmente chi non ci sta perché, come sempre, chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto.
Intanto, fortunatamente, la marea fa salire tutte le barche, compresa quella della Meloni che pare destinata a diventare un barcone bello carico e che si propone come alternativa di governo. Resta da capire cosa potrà fare di fronte a problemi gravi e concreti una classe dirigente eterogenea e un po’ improvvisata, ben addestrata alla caccia al consenso e alla gestione spicciola ma piuttosto inadeguata dal punto di vista della preparazione culturale e della elaborazione politica. Ancora una volta il rischio è quello di arrivare impreparati all’appuntamento decisivo e di rimanere succubi e subalterni dell’egemonia dominante limitandosi all’esercizio del potere spicciolo.
Una storia già vista che sembra destinata a ripetersi, come è inevitabile non avendo voluto né saputo imparare niente dal passato. Da questo punto di vista il disgraziato ed evitabilissimo episodio di Roberto Rosso in fondo è solo la punta di un iceberg.
Grande problema non risolvibile senza volontà politica: la cooptazione di una classe dirigente.
Problematica comune ad ogni formazione, nessuna esclusa.
Il nulla condito con quel pizzico di ipocrisia che ti permette di fare la faccia stupita.Un ulteriore passo verso il discredito