Il momento più bello di uno dei film candidati al concorso in questione, Hammamet di Gianni Amelio, è forse quello in cui “il presidente”, in lacrime dopo aver raccontato un incubo alla figlia “Anita”, dice che non c’è nulla di bello nel parlar male di qualcuno (è uno dei motivi per cui detesto il ruolo del critico, cinematografico o che altro); e nemmeno “rosicare” per i successi altrui è buona cosa…
… non fosse che i risultati del David di Donatello, edizione del 2021, lasciano costernati (a parte l’ottima notizia del premio alla miglior canzone: Zalone invece della Pausini). Salvo poi considerare che la presidente è, dal 2018, Pietra Detassis, direttrice per oltre vent’anni del dozzinale mensile “Ciak”: allora tutto torna, e la costernazione lascia spazio alla rassegnazione per le sorti d’un cinema italiano che forse, nel pantano dei soliti film con la Rohrwacher e Lo Cascio che urlano, la Buy e Orlando in perenne nevrosi, la figlia di Vittorio Mezzogiorno che allibisce, Giallini che manco prova a recitare e Germano che fa i versacci, ha tutta l’intenzione di restare.
Si veda l’assegnazione del miglior attore protagonista. Scelta impossibile: l’onnipresente e già premiatissimo Pierfrancesco Favino, con la sua interpretazione ultra-mimetica di Craxi nel succitato Hammamet di Amelio (film bello, seppur carico di difetti, che proprio nella performance di Favino ha il suo punto di forza), oppure Renato Pozzetto nel ruolo di Giuseppe Sgarbi detto Nino (padre di Elisabetta e Vittorio), in Lei mi parla ancora di Pupi Avati, strabiliante prova tragica d’un comico geniale che a 80 anni esatti ha esordito da attore drammatico? Il premio è invece andato a Elio Germano, interprete del pittore Antonio Ligabue in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti: le solite urla, le solite contorsioni, la solita espressione accigliata, e tanti saluti alla buonanima di Flavio Bucci che aveva fatto assai di meglio in uno sceneggiato RAI.
Tutti e tre i film citati sono biografici. Le biografie al cinema di per sé non hanno nulla di male: ma la fantasia, a quanto pare, non dilaga.
A proposito di Hammamet e del suo cast. Nonostante il superlativo Favino e le partecipazioni di Claudia Gerini, Omero Antenutti e Renato Carpentieri, uno dei maggiori problemi del film dedicato al Craxi esule è il cast. I ragazzi hanno la scusante dell’inesperienza; Giuseppe Cederna, che “recita” da prima che Craxi diventasse Presidente del Consiglio, no. La sua interpretazione del presunto suicida Vincenzo Sartori (ispirato all’infartuato Vincenzo Balzamo) è, come sempre, imbarazzante, da recita dell’oratorio estivo: il solito birignao, la solita parlata stentata e i soliti gesti nevrotici. Le quattordici candidature di Hammamet (soltanto una statuetta, ai truccatori) sono, nel loro insieme, comprensibili; la nomination di Cederna non è accettabile. Per carità, la preferenza per Favino e Pozzetto rispetto a Germano è una mia opinione: ma, al netto delle frasi fatte cretine come “de gustibus”, “non è bello ciò che è bello” e altri motti per qualunquisti, questa nomination è una questione assai netta: chi l’ha proposta non ha la minima idea di cosa sia la recitazione. Che in un ambito prestigioso come i David si sia arrivati così in basso, fa temere quanto si diceva sopra: che nonostante le operazioni coraggiose e di ampie vedute della stagione di grazia tra il 2015 e il 2016 (Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Veloce come il vento di Matteo Rovere, un breve momento felice di Matteo Garrone culminato nella megaproduzione del sottovalutato Il racconto dei racconti) e una produzione comica di valore (Checco Zalone prima di Tolo Tolo, Paola Cortellesi) il cinema italiano abbia tutta l’intenzione di restare ciò che è dal Duemila: Luchetti, Pif, la Comencini e quel che resta di Nanni Moretti; e quando proprio si osa, ci si accontenta di Donato Carrisi che fa le parodie di Il silenzio degli innocenti.

A proposito di Veloce come il vento: migliore attrice non protagonista, per il film sull’Isola delle Rose (fondata da un ex repubblichino, nonostante l’atmosfera un po’ hippy del film) Matilde De Angelis. Dapprima non ha commentato, ammettendo che riusciva solo a pensare parolacce. Come quando fu intervistata sull’iper-sessualizzazione di Leonardo da Vinci in una fiction della RAI della quale è stata co-protagonista: senza tali licenze à la page, la biografia del maestro di Anchiano sarebbe stata “una rottura di p***e”.
Si apre un mondo, dietro la loquela dell’attrice bolognese, lanciatissima nel mondo delle produzioni televisive statunitensi, paladina dei millennial col muso incollato a Netflix. Secondo la De Angelis, la biografia di Leonardo da Vinci sarebbe noiosa, se non si insistesse sulle sue tendenze sessuali e non lo si sospettasse di “femminicidio”. Come non trovare tediosa la vita di chi ha imparato le arti (sì, più di una, e pure bene) nella bottega di Verrocchio, è sfuggito per pochissimo alle ire di Michelangelo e alle smanie mecenatesche di Isabella d’Este, ha ritratto Ginevra de’ Benci e Beatrice d’Este, è stato alla corte dei duchi di Milano e a quella dei re di Francia finendo sballottato dalle alterne vicende belliche degli uni e degli altri, ed è spirato tra le forti braccia dell’irrequieto re Francesco I? Diciamolo pure, come la De Angelis: che palle. Perché no, la Generazione Z, così delicata, sedentaria e conformista, non è noiosa. Isabella d’Este, Michelangelo, la guerra tra gli Sforza e il re orleanese cavaliere e letterato sono pallosi; assai più avvincenti sono Meghan Markle, Achille Lauro, l’universo arcobaleno.
Premiamoli pure. E se qualcuno non è d’accordo, gli si dice: “de gustibus”, “non è bello ciò che è bello”, “è la tua opinione”, “non possiamo mica essere tutti imparati”, così si stronca la discussione sul nascere e si manda il rompipalle a cuccia. Evviva, un’attrice che non fa la diva, una che parla come noi, semplice semplice, conforme conforme, qualunque qualunque, bisogna essere tutti così, dagli con la livellatura verso il basso, sia mai che salta fuori qualcuno in gamba e ci intimidisce. La qualità è pallosa, il Rinascimento è palloso (la De Angelis saprà che la statuetta che le è stata assegnata è la replica in scala di un’opera rinascimentale?). Come dice il regista di Boris, telefilm ambientato in un set televisivo: “la qualità c’ha rotto er…”