Un successo strepitoso quanto (dai più) imprevisto. In sole due settimane il libro “La France n’a pas dit son dernier mot” (la Francia non ha detto la sua ultima parola) è in testa a tutte le classifiche: 150mila già vendute su 400mila stampate, presentazioni affollatissime, dibattiti infuocati sui media. Un caso editoriale e politico che appassiona e divide la Francia sia per le pagine (politicamente scorrettissime) su immigrazione, coesione sociale, oligarchie, ambiente, Nazione, sia per l’autore, Eric Zemmour, il giornalista più famoso della Répubblique, l’uomo che ha sconvolto tutti gli schemi dell’imminente campagna per l’Eliseo. Da mesi la domanda che rimbalza ossessivamente dalle redazioni dei giornali alle sedi dei partiti, dalle televisioni ai palazzi del potere è una sola: Zemmour si candida alle Presidenziali?
L’uomo, abile comunicatore, al momento non si pronuncia e si gode, dopo anni di censure e boicottaggi (nel 2010 Le Figarò cercò di licenziarlo ma, spaventato dall’ira dei lettori, dovette rimangiarsi la decisione), il suo momento magico. Da giugno a oggi i sondaggi a lui favorevoli sono cresciuti in modo esponenziale passando dal 5,5 pre estivo al 17 per cento odierno. Numeri che irritano una sempre più un’acciaccata Marine Le Pen (ferma al 19) e spaventano il neo gollista Xavier Bertrand precipitato al 13.9 ma che inquietano anche Macron, per nulla entusiasta di ritrovarsi al secondo turno come avversario una vera e propria star mediatica oltre che una personalità di profondissima cultura. Un uomo di penna e televisione. Imprevedibile.
Questa duplicità è il vero asso nella manica di Zemmour, personaggio capace di straordinarie performace televisive (3,8 milioni di francesi hanno seguito il suo pirotecnico dibattito con il gauchista Jean Louis Mélechon su BFM TV), ma anche e soprattutto intellettuale raffinato e complesso. Intrigante e libero. Il suo dialogo permanente, ficcante e a volte irritante ma sempre coraggiosamente controcorrente, con la travagliatissima storia di Francia — un continuo interrogarsi sulle vittorie e le sconfitte, sulle cadute e resurrezioni, dalla fronda alla Vandea, da Bonaparte a Dreyfus, da Vichy alla V Repubblica — si è trasformato, libro dopo libro, in una diagnosi acuta, scintillante quanto impietosa, sui mali profondi del Paese. Non a caso i commentatori più attenti hanno ritrovato in questa vocazione una linea diritta, molto francese, che riporta ai “politici letterati”: da Napoleone a Thiers, da De Gaulle a Mitterrand, passando sottotraccia per Giscard e Pompidou.
In più sorprende ed entusiasma (disorientando puntualmente gli avversari) il suo miscelare l’amore sconfinato per la Francia con la rivendicata identità israelita e le radici “pieds noires”, i francesi d’Algeria fuggiti dopo l’indipendenza del 1962: «sono cresciuto in una famiglia in cui l’amore per la Francia era innato, naturale, potente, non si scherzava su questo». Un patriottismo genuino, magari apparentemente ingenuo, che diventa fine ragionamento cartesiano con cui demolire, come nel suo best seller “Le Suicide Française”, le architetture sessantottine viste come la matrice della decostruzione non solo della Nazione ma, attraverso l’attuale follia “woke”, dell’intera eredità culturale occidentale.
Tema centrale del discorso “zemmuriano” è, ovviamente, la massiccia immigrazione islamica e la pericolosa radicalizzazione di segmenti sempre più larghi delle comunità. Anche su questi temi le analisi e le proposte sono ben più sofisticate dell’armamentario lepenista e si innescano addirittura sul totem del 1789 giacobino. Riprendendo l’appello di Stalislav Clermont Tonnere, l’alfiere della piena cittadinanza agli ebrei durante la Rivoluzione, Zemmour distingue i credenti in Maometto dal sistema giuridico-politico islamico, perciò «tutto per i musulmani in quando individui, nulla in quanto popolo».
Cosa accadrà, cosa succederà? Al momento nessuno può prevederlo. Di certo lo scrittore è al centro della scena mediatica. E gli scossoni si sentono, in primis nelle file lepeniste. Il sindaco destrista di Bezier Robert Ménard, cofondatore di “Reporters sans Frontière”, ha invitato lo scrittore di trovare un accordo con la signora Le Pen. «Vi imploro, ritrovatevi entro il prossimo febbraio e chi è in svantaggio si ritiri e appoggi l’altro. Non sprechiamo questa possibilità». Maliziosamente Zemmour ha scantonato una volta di più: «Non posso ritirarmi poiché non mi sono ancora presentato. In ogni caso siamo solo ad ottobre». La strada verso le presidenziali è ancora lunga e piena di curve.