Il 23 gennaio 2023 lo storico tedesco Ernst Nolte avrebbe compiuto 100 anni. Un nome che anche per chi non ha stetti legami con le discipline umanistiche viene automaticamente associato al leggendario Historikerstreit degli anni Ottanta, in cui intellettuali tedeschi di spicco discussero sull’interpretazione e sul trattamento storico-politico dell’Olocausto. La disputa andò ben oltre quella che poteva essere una normale controversia accademica: furono mosse accuse di revisionismo e persino di antisemitismo, con il risultato che Nolte negli anni successivi e fino alla sua morte fu deliberatamente isolato dalla comunità degli storici tedeschi. Che cosa era successo?
Nel suo famoso saggio della FAZ “Vergangenheit, die nicht vergehen will” (Il passato che non vuole passare), Nolte si chiedeva se “l’omicidio di classe dei bolscevichi” non fosse non fosse altro che “l’antefatto logico e fattuale dell’omicidio razziale dei nazionalsocialisti” e se ” l’Arcipelago Gulag non andasse visto come fenomeno ben più originale di Auschwitz“. In questa visione, l’Olocausto diventava un evento non singolare in una catena causale storico-politica, null’altro che una reazione a qualcosa già accaduto in precedenza.
Queste tesi centrali, che in seguito valsero a Nolte l’accusa di relativizzare l’Olocausto, furono integrate dalla sua valutazione in altra sede che sia il marxismo che il fascismo fossero state reazioni ai processi di modernizzazione, il che spinse il filosofo Jürgen Habermas, che si contrappose in modo rumorosissimo a Nolte nella disputa tra gli storici, a criticare quest’ultimo per aver costruito un paragone tra un progetto comprensibile ed i crimini del nazionalsocialismo. E il liberale di sinistra Habermas concludeva poi ribadendo un impegno a favore del legame della Germania con l’Occidente, legame che poteva essere garantito solo dal “rossore della vergogna” con l’Olocausto a fare da sfondo. In quelle circostanze Habermas accusò anche lo storico Andreas Hillgruber di revisionismo e di rifiutare gli approcci socio-scientifici come metodo per costruire le proprie argomentazioni.
DIFFERENZIAZIONE FUNZIONALE E SOCIETÁ DI GUERRA
La sociologia tedesca – da cui lo stesso Habermas si è notoriamente ben presto allontanato, dopo che la capacità della sua teoria dell’azione comunicativa di creare connessioni logiche era stata messa seriamente in discussione nel suo dibattito con Niklas Luhmann – ha esercitato un lungo e profondo lavoro di ricerca sul Terzo Reich, dovendo però spesso cedere il passo agli storici. Forse proprio a causa della disputa con gli storici, i sociologi di questo Paese hanno osato affrontare solo di recente questo argomento esplosivo, la cui discussione può scatenare tempeste di indignazione anche per una sola parola sbagliata, magari percepita come mancanza di sensibilità.
In questo ambito sono ipotizzabili tutti i tipi di prospettive di ricerca. La psicologia sociale, la microsociologia e la sociologia organizzativa in particolare hanno contribuito a studiare meglio i processi sociali nel Terzo Reich. Al contrario, il fondo di prospettive macrosociologiche che illuminano lo sviluppo sociale nel – o verso il – nazionalsocialismo da una prospettiva, per così dire, a volo d’uccello, lascia molto a desiderare. Tra l’altro tutto questo mancava ancora di più negli anni Ottanta, rendendo così del tutto ipocrita la già citata critica di Habermas a Hillgruber.
Le prospettive già elaborate, tuttavia, offrono conclusioni interessanti, adatte a sostenere la tesi di Nolte di una “reazione alla modernizzazione” e, allo stesso tempo, a mostrare che la struttura sociale risultante della “società della guerra“, come la chiama il sociologo della guerra di Bielefeld Volker Kruse in riferimento a Herbert Spencer e in cui si trovavano sia la Germania nazionalsocialista che l’Unione Sovietica stalinista, è adatta anche a guidare i processi di esclusione all’interno attraverso la prospetta minaccia di guerra imminente.
Grazie allo sviluppo tecnico e culturale, è possibile individuare quella che può essere descritta come la differenziazione funzionale di una società mondiale, soprattutto nel XIX secolo: sistemi sociali come la religione o la politica passano in secondo piano; allo stesso tempo, compaiono nuovi “concorrenti”, come un sistema economico autonomo, un sistema scientifico svincolato dalla religione o addirittura – come al più tardi nella Repubblica di Weimar – un sistema giuridico che opera autonomamente e sulla base di una costituzione. La complessità e la contingenza (cioè le incertezze) di una società aumentano con il suo grado di differenziazione funzionale (differenziazione di tali sistemi funzionali sociali), che può essere descritta con buona coscienza sociologica come il nucleo di ciò che costituì la “modernizzazione”.
RIFIUTO DEL LIBERALISMO E DELLA SUA MODERNIZZAZIONE
Non occorrono anni di esperienza di ricerca per rendersi conto che le origini teoriche statali e sociali e, successivamente, ideologiche sia del marxismo che del nazionalsocialismo rimandano a caratteristiche sociali riconducibili a tratti fondamentali della differenziazione funzionale. Entrambi si sono sempre visti come anti-capitalisti – cioè rifiutando l’autonomia del sistema economico – e come movimenti contrari al liberalismo, che può essere inteso più che altro come una sorta di “ideologia politica della differenziazione funzionale”, in quanto rifiuta il primato del politico e cerca di legarlo al diritto. Questo approccio è stato criticato con forza dal costituzionalista tedesco Carl Schmitt come si può leggere nella sua famosa opera “Teologia politica”: la depoliticizzazione liberale era vista da Schmitt come un’evoluzione da combattere politicamente.
Che si tratti della critica di Schmitt al liberalismo o della lotta marxista contro il capitalismo, entrambi i movimenti esprimono il rifiuto di elementi centrali della modernizzazione – ed entrambi i movimenti hanno acquisito forza dalle masse di persone che condividevano questo rifiuto o addirittura lo affrontavano con paura. Sia nel caso della classe operaia, a causa della scarsa condizione sociale, sia nel caso della borghesia, sullo sfondo della paura del declino sociale. A questo punto, diventa evidente che il rifiuto generalizzato della tesi di Nolte da parte di Habermas contraddice in pieno la pretesa di quest’ultimo, espressa altrove, di attingere alle “spiegazioni delle scienze sociali”.
Come sottolinea Volker Kruse nel suo libro del 2015 “Kriegsgesellschaftliche Moderne” (Le moderne società di guerra), entrambe le società nazionali, la Germania e l’Unione Sovietica, svilupparono una logica strutturale in seguito alla quale divennero “società di guerra” senza essere già in un conflitto militare de facto: ogni misura politica si basava così sulla premessa che si dovesse agire come se si fosse già in guerra, il che, se si considera l’indicazione più importante di questo sviluppo, ebbe tra le altre cose conseguenze fortissime sulla politica degli armamenti. Allo stesso tempo si seguiva la teoria di Carl Schmitt – probabilmente inconsciamente in URSS, consapevolmente nel Terzo Reich – secondo cui il politico è caratterizzato dalla distinzione tra amico e nemico che, attraverso il potenziale di uno “stato di emergenza”, è in grado di soppiantare tutte le altre distinzioni rilevanti nella società – ad esempio la distinzione economica di profitto/perdita o quella di giusto/sbagliato. Schmitt ha quindi presentato nient’altro che una teoria che prevedeva l’esatto contrario dell’idea di una società funzionalmente differenziata, costituita da sistemi funzionali autonomi e indipendenti dalla politica. Ciò rende evidente quanto fosse potente la logica strutturale della società di guerra, con la conseguenza della sua codifica amico-nemico: pertanto la semplice attribuzione dell’intenzione del nemico di entrare in guerra diventava sufficiente per comportare l’auto-posizionamento in un sistema di conflitto di proporzioni globali. Se si accetta questa spiegazione macrosociologica, cioè social-scientifica (!) – che Habermas aveva almeno implicitamente richiesto – si offre un approccio del tutto idoneo a suffragare e quindi sostenere la tesi principale di Nolte.
RICERCA SENZA STRUMENTALIZZAZIONE POLITICA
Ammettere questo, naturalmente, presupporrebbe l’interesse per una discussione accademica sul tema che non si faccia mero strumento di un paradigma politico, come nel caso dell’argomentazione di Habermas – come del resto lui stesso ammetteva, con il suo impegno verso l’Occidente e il “rossore di vergogna” collettivo che, a suo avviso, serviva a questo. Ciò diventa ancora più interessante soprattutto se si considera che Habermas, fuggito dalla sociologia alla filosofia, nelle sue opere sulla teoria della comunicazione si presentava come un sostenitore del “discorso libero dal dominio“. Mise fine a tutto questo con le sue argomentazioni nell’Historikerstreit: Il paradigma politico del legame con l’Occidente si era ormai impadronito della possibilità di giungere a delle coerenti definizioni, e tutto questo al prezzo della scientificità.
Florian Sander, traduzione di Antonio Chimisso
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Florian Sander è sociologo e politologo. È membro della commissione di programma statale e del comitato statale per la politica estera e di sicurezza dell’AfD in NRW, nonché presidente del distretto dell’AfD di Bielefeld e membro del consiglio comunale di Bielefeld. Ha scritto per “Le Bohémien”, “Rubikon”, “Linke Zeitung”, il blog “Jungeuropa” e “PI News” e “Arcadi”, tra gli altri, e ora scrive per “Sezession”, “Glauben und Wirken”, “Wir selbst” e “Konflikt” e gestisce il blog teorico “konservative revolution”.