Ricordate il film di Alberto Sordi “Finchè c’è guerra, c’è speranza” , un affresco agrodolce sul traffico d’armi e sull’italica ipocrisia. Buonisti a parole e speculatori nei fatti. Nulla è cambiato da allora. Anzi. Lo conferma l’ultima Relazione al Parlamento sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. Dati, numeri e nomi. In cima alla lista vi sono le “banche armate”, ovvero gli istituti di credito che si arricchiscono proprio con il business delle armi. Qualche cifra. Nel corso del 2016 il valore delle transazioni bancarie legate all’export di armamenti è cresciuto dell’80% passando da 4 miliardi a 7,2 miliardi di euro.
Ma chi sono le “banche armate”? Accanto alle straniere Deutsche Bank e Credit Agricole, troviamo Unicredit: nel 2016 l’industria bellica ha fatto registrare un incremento nei suoi conti correnti del 356% rispetto al 2015. Seguono la misconosciuta Banca Valsabbina, piccola banca cooperativa del bresciano (le sue transazioni armate sono cresciute dal 2015 al 2016 addirittura del 763,8%) poi Intesa Sanpaolo, Ubi Banca, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Carige, alcune altre popolari minori e nella classifica dei “conti armati” troviamo perfino Poste Italiane.
Ma le sorprese non sono finite. Continuando a spulciare il fatidico elenco troviamo anche una new entry : la Sace Fct , terminale di factoring di Sace, la società per azioni del gruppo italiano Cassa depositi e prestiti (Cdp), ovvero lo Stato. Ricordiamo che la Cassa è controllata all’80% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ovvero dal governo Gentiloni. Buona guerra a tutti e tanti saluti ai pacifisti!