Come falchi pellegrini i pensatori della sinistra si fiondano su temi cari alla loro sensibilità gnoseologica, sempre suscettibile su certe questioni pseudoumanitarie che configurano i lineamenti di una stramba post-ideologia politica, principalmente anti-italiana e soprattutto nemica del Vero. Gli strampalati Don Chisciotte per caso sono i vari addetti alla propaganda: Saviano dal labbro bavoso, la becera Murgia, la nervosa Boldrini e il dicasterico Fiano, il flemmatico Letta e l’inacidito Gassmann; sembra che costoro non abbiano altro da fare che grufolare tra le cupe sterpaglie della cronaca per trovare episodi o drammi che confermino i propri pregiudizi e diano forma palpabile ai loro ipertrofici preconcetti sugli italiani.
Se dei suicidi che non possono essere strumentalizzati si tace saggiamente, anzi si serba un silenzio enigmatico sui padri di famiglia impiccatisi dopo aver perso tutto anche a causa dei vari lockdown imposti dal deus ex machina di un governo incantato dal verbo stregonesco dei dittatoriali registi della sanità globale, si urla invece a sproposito il proprio sdegno, prendendo per l’eccessivo impeto della voce la nota troppo in alto e innescando una sinistra risonanza, laddove il dramma ugualmente grave e tragico riguarda un ragazzo di colore.
Se a suicidarsi è un ventenne di origine etiope adottato da piccolo da una famiglia italiana, Seid Visin, che tra l’altro è stato un talentuoso calciatore delle giovanili del Milan, allora con i loro occhi attenti ai cromatismi e ai chiaroscuri della pelle questi chiosatori del quotidiano cominciano con la rapidità di un meccanismo ben oliato ad attribuire al povero ragazzo una motivazione legata a sofferenze causate dal razzismo subito per spiegare un gesto che forse è il più estremo tra quelli che l’uomo può compiere; e lo fanno come se conoscessero da sempre il giovane, si impuntano su un post scritto nel 2018 e cavalcano appieno il caso per ribadire le loro tesi sul razzismo vigente in Italia con tutto il corredo stonato di invocazioni della necessità dello ius soli, dell’accoglienza diffusa dei clandestini in arrivo e la relativa urgenza di vergognarsi collettivamente per l’attitudine razzista del popolo italiano. Insomma tutte le ipocrisie e le manie del loro trito repertorio, dimostrando così ancora una volta di essere loro i veri razzisti che non riescono ad immaginare che un ragazzo nero possa soffrire per motivi che prescindono dal colore della pelle o da questioni di apartheid o altre difficoltà di inserimento etnico, come se per loro l’africano non potesse avere una psiche complessa e variegata, ricca di solarità, ma anche di pertugi oscuri come ogni essere umano.
Nonostante la ferma presa di posizione del padre Walter Visin, il quale ha voluto assolutamente fermare quelle odiose strumentalizzazioni e speculazioni politiche ricordando pubblicamente che le ragioni del malessere di Seid erano altre, i paladini della giustizia etnica hanno continuato a infierire su un lutto nella sua forma peggiore, quella di genitori che piangono per la morte, tra l’altro autoinflitta, di un figlio, arrivando a contrastare anche tali affermazioni della famiglia e di coloro che rispettosamente vi hanno dato credito. D’altronde gli anti-italiani che da anni ci mettono in bocca parole che non abbiamo mai pronunciato purtroppo fanno lo stesso anche con chi è morto e non può più contraddirli.
Basta visionare un video su internet in cui questo bellissimo ragazzo di origine etiope balla con un’espressività corporea straordinaria ed è sufficiente soffermarsi sul suo sguardo intenso e profondo, punteggiato di ombre e di luci, per capire che si trattava di un giovane altamente creativo, intenso, pensoso e sappiamo che chi ha queste doti di sensibilità e profondità rischia più di altri di cadere in certi abissi dell’anima umana da dove, quando ci sei dentro, sembra che non ci sia via d’uscita, si nuota invano nell’oscuro bacino della sofferenza e ci si proietta in un aldilà ipotetico o in uno spazio vuoto che è comunque una via di fuga, una proiezione del respiro, se ci appare invivibile e impossibile l’aldiquà per tante ragioni sia interiori sia relazionali che chi è estraneo a un tale psicodramma non può spiegare.
A volte alcuni particolari contrasti o dissonanze nell’anima, perfino nell’ambito di una vita agiata, fortunata, baciata dal benessere, dalla bellezza, dal talento, vengono ingigantiti; il mantice della depressione talvolta soffia su piccoli dettagli e li rende colossali: microeventi del quotidiano o normali inquietudini diventano spaccature nella coscienza, profonde come canyon in cui si cade e si continua a ricadere, eppure se il soggetto riuscisse a liberarsi, vedrebbe in una luce completamente diversa quel tunnel che ha attraversato e quegli ostacoli che sembravano insormontabili. E’ in questi casi inutile e nocivo addentrarsi in postume analisi psicologiche o addirittura portare avanti rivendicazioni ideologiche sfruttando il profilo di destini altrui che non conosciamo.
Ma non c’è niente da fare, ci sono uccelli rapaci e avvoltoi che vogliono giudicare con feroce rapidità e insistono a farlo anche se contraddetti e smentiti da coloro che erano più vicini al ragazzo, i suoi familiari, e anzi rincarano la dose, vedasi l’irredimibile Andrea Scanzi, giornalista che in effetti ha le stigmate della “bontà” scolpite sul volto. Il quale non lascia la presa ma raddoppia, anche dopo questi chiarimenti, le accuse di razzismo, seguitando ad attribuire moventi e proiettare fantasmi anche laddove un padre affranto protesta asserendo che non vuole che il dramma di suo figlio sia strumentalizzato o sottolineando che le radici del dolore erano altrove e la lettera, che risaliva a tre anni prima, non rifletteva lo stato psicologico del ragazzo, il quale, a suo dire, è tornato mutato da un periodo di permanenza in Finlandia con la ragazza durante la crisi pandemica.
Davanti a parole così nette pronunciate da un padre che si trova all’apice indicibile del dolore umano occorrerebbe fermarsi e rispettare quello spartiacque tremendo che si chiama lutto, quel frangiflutti osceno che divide per sempre le nostre vite tra un prima e un dopo, tra l’essere stati insieme e un inesorabile mai più. Tacciano dunque questi disturbatori compulsivi di morti e calpestatori di tombe che svegliano il grande sonno dei silenziosi con le loro voci stridenti. Letta come al solito suona patetico e pseudopaterno, il suo tono è il più mellifluo: “Se puoi, scusaci. Chiediamo perdono!”. La Boldrini più istituzionale e sociologica si chiede: “Ma che società vogliamo essere?” Punitivo, censorio e senza gradazioni martella incalzante l’onorevole Fiano: “No, Matteo Salvini, chi ancora distingue o disprezza un essere umano in base al colore della pelle non è un cretino, è un criminale e come tale va punito. Punto.”
Utilizzare un messaggio risalente ad anni prima per spiegare il gesto di uno sconosciuto è già un atto di arroganza; ad esempio anche nella mia scrivania vi sono cassetti con scritti appartenenti a un recente passato che enunciano sentimenti e sofferenze che adesso non mi rispecchiano per nulla, ma qualche indebito studioso della psiche altrui potrebbe inchiodarmi a quei testi come se riflettessero la mia intera personalità e fossero una croce irrisolta, il che mi irriterebbe fortemente. Nel caso di un uomo che è morto manca anche la possibilità di difesa e di smentita: per questo l’affronto è più grave.
D’altro canto dubito che si suicidi chi non è in qualche misura e per un certo tempo depresso e di certo gli occhi del povero ragazzo, con quello sguardo che ricorda l’intensità struggente e sfuggente di Luigi Tenco, più chiaramente degli scritti ci parlano di una pena irrisolta, di una tristezza che non possiamo pretendere di indagare, di certo non noi estranei che dobbiamo restare fuori dal recinto di un lutto privato come il suicidio, che è sempre un fallimento del singolo e della società perché quel gesto non è mai una stoica vittoria o una rivoluzionaria liberazione. E’ sempre qualcosa che doveva essere evitato.
La compagine sociale nel suo insieme spesso non è attenta agli umori del prossimo, non nota i cambiamenti, è ottusa rispetto alle condizioni spirituali dell’individuo, e intendo ognuno di noi, perché la vera minoranza non protetta è costituita dal Singolo con tutte le sue differenze personali e le sue unicità irriducibili e irripetibili. Non mi stupisco che qualcuno, magari più sensibile di altri, vada alla deriva e non si ritrovi più in un contesto appestato da ipocrisie e discussioni sterili, troppe dichiarazioni ufficiali e scarsa capacità di dare affetto, attenzione e ascolto all’individuo. E’ vero d’altro canto che il depresso nella cupezza della sua visione trova opprimenti e insopportabili situazioni che in uno stato normale della mente considererebbe facilmente superabili e le collane più splendide sembrano catene, passerelle vertiginose le strade panoramiche, così come diventano drammi insuperabili quelle fissazioni del pensiero su cui a distanza di tempo si finirebbe perfino per sorridere.
Ma in un quadro di prometeica sofferenza non si vede la fine del supplizio, chiusi nel golfo senza scampo di un disagio insondabile, dimidiati da una forbice che recide la fluida normalità della vita. Lasciando in pace questi poveri genitori colpiti da un dramma apocalittico, torno per un attimo ai nostri commentatori fuori luogo, ovvero quegli xenofobi mascherati che giudicano tutto per specie, categorie e generi senza mai cogliere l’umano nella sua interezza, quella famiglia umana che dovrebbe essere lo specchio allargato delle singole famiglie innamorate dei propri membri, dove l’unico collante efficace sarebbe l’Amore, l’elemento che più latita nel mondo e forse per questo ci si deve nascondere anche tramite chiassosi dibattiti pubblici dietro l’ipocrisia che sovente si annida dentro la parola.