
Sul referendum che coinvolgerà la Lombardia e Veneto si rischia che la consultazione diventi uno strumento di propaganda indipendentista, senza tener conto della valenza che ha la parola “autonomia” per le due regioni .In realtà la data scelta per il referendum,il 22 ottobre, genera più di qualche equivoco e può suonare come una provocazione per chi conosce la storia e crede in un’Italia unita, libera e sovrana.
Il Plebiscito del 22 ottobre 1866
Di fatto le date del 21-22 ottobre del 1866 sancirono l’annessione delle Province Venete al Regno d’Italia con una consultazione che meriterebbe di essere celebrata ed approfondita a dovere nel ricordo di tutti quei Veneti che furono protagonisti del Risorgimento italiano.
Devo rilevare che in realtà un po’ di confusione e scarsa informazione su quel Plebiscito i venetisti l’hanno sempre fatta a partire dall’ amico e collega Ettore Beggiato che è uno dei più accaniti sostenitori della tesi che quella consultazione fu un imbroglio perché a votare furono pochissimi secondo la sue tesi.
Votarono effettivamente, secondo i dati forniti dalla Corte d’Appello del tempo, 642.100 persone su una popolazione intorno ai 2.500.000 abitanti, di cui 641.758 a favore, 69 contro e 273 scheda nulle.Nessun ricorda che coloro che avevano diritto al voto in quanto maschi di età maggiore di 21 anni costituivano circa il 28% sella popolazione.L’affluenza al voto fu quindi molto alta per quei tempi oltre l’85% degli aventi diritto.
La percentuale di votanti a favore fu del 99,9%. Il Sì all’unificazione ottenne indubbiamente un risultato positivo anche se la partecipazione non fu massiccia.In realtà 650.000 elettori non furono pochi per quei tempi e anche se vi fossero state pressioni o trucchi, il principio del pronunciamento popolare fu un fatto autenticamente rivoluzionario in quanto far votare il popolo per l’annessione al Regno rappresentava un’ innovazione che non può essere minimizzata. Quando mai veneti furono chiamati ad esprimersi col voto prima di allora?
La Repubblica di Venezia
I fautori dell’indipendenza e del separatismo parlano troppo poco di un’epopea dapprima tronfiamente esaltata alla nausea, per esaltare il federalismo e poi lo stesso periodo inettamente nascosto sotto il tappeto.
Mi riferisco in particolare a Daniele Manin e la sua Repubblica ,mossa da ideali risorgimentali dove il leone campeggiava all’interno della bandiera italiana fin dal 1848 (1). La figura di Daniele Manin e quella di Nicolò Tommaseo, con l’esperienza della Repubblica veneziana , furono gli esempi più concreti della possibilità di costruire la nuova nazione su basi federaliste anziché attraverso il progetto monarchico di accentramento del potere politico e amministrativo. L’esito tragico del lungo assedio di Venezia, la restaurazione austriaca e le condizioni materiali e politiche diverse del 1866 posero la parola fine alla possibilità e alle suggestioni che il pensiero federalista del tempo aveva espresso nella stagione veneziana del 1848-1849.
Nel biennio rivoluzionario 1848-1849 non fu solo lo straniero il nemico contro cui si batterono i patrioti, ma divenne sempre più chiaro che lo scontro era anche interno, tra patrioti repubblicani e patrioti monarchici, tra fautori della repubblica, per molti di loro federalista, e fautori del disegno monarchico di Stato nazionale a guida sabauda.
I federalisti repubblicani furono dei veri innovatori del dibattito sulle possibili elaborazioni politico-istituzionali della nuova nazione che, dalla caduta di Napoleone sino al 1848, si erano sviluppate attorno alle ipotesi confederative degli stati regionali sotto la guida o dei Savoia o del Pontefice, che emersero nel progetto unitario mazziniano.
I moti studententeschi di Padova
I venetisti nelle loro parziali ricostruzioni storiche non parlano ad esempio dei moti studenteschi di Padova. L’ 8 febbraio 1848 gli studenti dell’università attaccarono i soldati austriaci presenti in città e assaltarono il Castello per liberare alcuni prigionieri politici. Una rivolta che fu sedata nel sangue: vennero espulsi 73 studenti e 4 professori, altri studenti vennero uccisi nel cortile del Bo ed al caffè Pedrocchi, l’Università patavina viene chiusa dalle autorità austriache. Un episodio, quello di Padova, che fu la miccia di quella rivoluzione maggiormente importante per la vasta eco suscitata in tutto il Veneto. Fu la prima rivolta nella regione, che si verificò in una città, che pur essendo sede universitaria, godeva di fama di tendenze pacifiche, “non facile agli eccessi senza motivi d’intollerabile provocazione”.
I fratelli Bandiera
Oscurantismo totale anche sulla storia dei fratelli veneti Attilio ed Emilio Bandiera. Figli di un alto ufficiale della Marina austriaca, ed ambedue avviati alla carriera militare, votarono la loro giovinezza alla libertà ed al riscatto dell’Italia. I due fratelli veneziani fondarono dapprima una società segreta, l’ Esperia, e passati poi nel movimento mazziniano, svolsero un intensa attività patriottica, che non sfuggì alla polizia austriaca. Costretti a riparare a Corfù (sotto la protezione inglese), i Bandiera con un pugno di adepti, per quanto sconsigliati dallo stesso Mazzini, tentarono uno sbarco in Calabria sperando di ridestare l’insurrezione anti Borbonica scoppiata nel 1844 a Cosenza ma, ignari che il moto fosse già stato stroncato per la mancata partecipazione della popolazione che, ancora una volta non si era mossa, furono subito scoperti: traditi da un compagno, furono catturati, processati e fucilati nel Vallone di Rovito, presso Cosenza (25 luglio 1844).
I giovani patrioti
E’ bene ricordare agli smemorati venetisti che di questo Risorgimento i protagonisti furono quasi tutti giovani volontari. Giovani rivoluzionari che cospiravano associandosi in sette e organizzazioni segrete e clandestine; giovani che accorrevano volontari ad ingrossare l’esercito piemontese, le formazioni garibaldine e armate patriottiche; giovani che difendevano sulle barricate le insurrezioni urbane a Padova a Milano come a Venezia e a Roma e che, con Garibaldi, si lanciarono nell’impresa dei Mille(2); giovani che confliggevano tra loro per affermare, all’interno della comune lotta per la causa nazionale, il principio repubblicano di una nuova nazione o più semplicemente per l’unità dell’Italia.
Giovani che tentarono, dal versante repubblicano, di trasformare la condizione di frammentazione statuale imposta all’Italia dalle diplomazie europee dopo la sconfitta napoleonica, attraverso una rivoluzione politica e sociale; giovani provenienti dai ceti popolari, per lo più urbani, che presero coscienza della nuova idea di nazione insieme alla maturazione di rivendicazioni sociali. Tutto ciò in un contesto europeo di grandi sommovimenti: pensiamo solo all’epopea garibaldina con molti di questi che combatterono per la libertà, per nuovi diritti e per l’indipendenza nazionale in Italia.
Note:
1)Nella dichiarazione del consiglio dei ministri della Repubblica Veneta, del 27 marzo 1848: «Coi tre colori comuni a tutte le bandiere d’Italia si professa la comunione italiana. Il Leone è simbolo speciale di una delle italiane famiglie». Parole esplosive, quelle vergate da quei veneti eroici, capeggiati da Daniele Manin, che presero le armi contro il giogo austriaco guidando insurrezione di Venezia, che pur avrebbe avuto vita breve.
2)L’Unità complessa Studi, documentazione e biblioteca del Consiglio regionale del Veneto49 ha svolto una interessante ricerca sulla partecipazione veneta all’impresa dei Mille. Tra i volontari di quell’impresa 162 sono veneti (solo i lombardi sono in numero maggiore),36 di questi dalla provincia di Venezia, 30 da quella di Vicenza, 28 da quella di Padova, 26 dal trevigiano, 25 dal veronese, 11 da quella di Rovigo e 6 dal bellunese. Il più giovane dei volontari veneti nella spedizione dei Mille aveva 16 anni, il più vecchio 56 anni ma la maggior parte era tra i 20 e i 30 anni. 52 di essi appartenevano a ceti artigiani e operai, 27 venivano dai corpi militari, solo 10 erano possidenti.
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prima del referendum in veneto ci fu quello nelle due Sicilie, nei liberi ducati emiliani e nel granducato di toscana per motivi di politica estera. gia’ il risultato del 99% in tutte queste consultazini indicano la liberta’ in cui furono eseguite: una sproporzione ridicola che ricorda i referendum staliniani. inoltrele schede andavano messe in due urne diverse: un’urna per il si’ ed un’urna per il no, mentre all’ingresso dei seggi attivisti per il si’ stazionavano con nerboruti bastoni e il commissario Farini in emilia aveva dichiarato che avrebbe punito i votanti contrari e le loro famiglie.L’ultima battaglia navale della serenissima si puo’ considerare quella di Lissa in cui i marinai veneti gridavano viva San Marco all’affondamento delle navi dell’ammiraglio Persano e di cui si disse che uomini di ferro su navi di legno vinsero uomini di legno su navi di ferro.
Tutto giusto quanto riportato, Ma sul piano storico ci riferisce ad una epoca che inizia ad essere piuttosto lontana. Per cui quello che poteva valere nell’800 potrebbe non valere più oggi. Ma non è questo il problema. Mi fermo alle prime righe, al rischio cioè che il referendum diventi strumento di propaganda indipendentista. Non è un rischio, è una certezza. La stragrande maggioranza della gente che voterà SI al referendum, lo farà come tappa di passaggio… o se si preferisce come un “piuttosto che niente , meglio piuttosto”. E allora qualcuno mi spiega la posizione di FdI? Il PD subisce il referendum e rancola nel buio, non sapendo che posizione prendere, proverà a suggerire l’astensione. Ma FdI che si dichiara partito addirittura patriottico, come fa a sostenere il referendum? Grazie per chi vorrà rispondere.
IL CONCETTO DI PATRIA E’ NATURALMENTE CONCENTRICO, IL CONCETTO IDEOLOGICO DI ORIGINE GIACOBINA E L’UNO ED INDIVISIBILE.TUTTI AMANO NATURALMENTE IL LUOGO IN CUI SONO NATI.IL NAZIONALISMO E’ DI ORIGINE GICOBINA ED E’ QUELLO CHE HA DISTRUTTO L’EUROPA CON LA PRIMA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE.
Il prossimo 22 ottobre i cittadini del Veneto saranno chiamati ad esprimersi, attraverso un referendum consultivo, sulla possibilità di ottenere in futuro maggiori forme di autonomia dallo Stato centrale per la propria regione. Il quesito, molto asciutto, riflette fedelmente la caratteristica fondamentale di questa consultazione: essere un prodromo di una trattativa con lo Stato, suffragata però da una manifestazione di forte gradimento popolare che dovrebbe così conferire maggiore forza alla parte regionale nella stessa.
E’ quindi necessario sgombrare subito il campo dai vari deliri propagandistici, che verosimilmente andranno a crescere in rumorosità e diffusione nel corso della campagna referendaria; il referendum prossimo venturo non rientra nella pur nobile tradizione della cosiddetta autodeterminazione dei popoli, e non rappresenta né l’anticamera di un processo che porterà alla fantomatica “indipendensa” né al conferimento al Veneto del carattere di regione a statuto speciale sul modello altoatesino, con tutte le ricadute di carattere finanziario che ciò comporterebbe.
Allo stesso modo appaiono del tutto fuori luogo le strumentalizzazioni identitarie alle quali si presta la data fissata per lo svolgimento della consultazione, il 22 ottobre, data che segnò nel 1861 l’annessione attraverso plebiscito delle province venete al Regno d’Italia, da sempre contestata dai venetisti più trinariciuti che mettono in dubbio la regolarità del plebiscito stesso e l’effettivo gradimento dei cittadini veneti all’annessione. Volendo anche tralasciare i numerosi e rilevanti episodi che testimoniano il patriottismo italiano dei veneti del periodo risorgimentale, dai moti di Padova del 1848 alla Repubblica di San Marco di Manin e Tommaseo, che scelse come proprio vessillo il Tricolore nel quale era inserito il leone alato, non sembra assolutamente velleitario affermare che è ormai maggioritaria nella società veneta la consapevolezza di essere il frutto di una componente culturale di carattere locale, che seppur forte, è inserita in un’identità nazionale italiana della quale la storia veneta fa parte a pieno titolo. Anzi, è proprio la concomitanza con il referendum analogo proposto per la regione Lombardia, a confermare che le richieste per la maggiore autonomia di queste due regioni si inseriscono nel quadro di una più ampia questione settentrionale, le cui rivendicazione sono per lo più di carattere economico/amministrativo e non di carattere identitario e proprio nel quadro della cosiddetta questione settentrionale va strutturato il dibattito sull’autonomia.
Appare evidente come nel corso degli ultimi anni la competizione economica in Europa, specialmente per ciò che riguarda le regioni settentrionali, Veneto in particolare, sia nel confronto con le altre entità regionali, in particolare quelle tedesche della Baviera e del Baden, spesso utilizzate come riferimento per valutare le performance economico/produttive della nostra economia; le statistiche ci parlano di un Veneto che ben si destreggia, ma la crisi ha messo in luce un altro aspetto che non può essere trascurato: le economie regionali si giovano di uno Stato forte nel contesto internazionale, che sappia difendere il proprio interesse nazionale ai tavoli europei grazie al proprio peso politico, evitando così il declino di competitività che ad esempio ha colpito la Catalogna, regione spagnola che prima della grande crisi figurava ai vertici delle classifiche sullo sviluppo delle regioni europee, insieme alle menzionate regioni tedesche, destino che ha in parte riguardato anche il Veneto e che rivela la necessità di abbandonare il mito delle presunte “piccole patrie” destinate all’irrilevanza di fronte ai grandi processi dell’economia moderna.
In questa chiave va interpretata la richiesta di maggiore autonomia da parte del Veneto, pienamente legittimata dalla particolarità della posizione geografica, stretta tra due regioni a statuto speciale, del proprio assetto industriale e dal proprio sistema economico, caratterizzato dalla grande dinamicità dei distretti produttivi diffusi e diversificati nel territorio, una “biodiversità industriale” che richiede una burocrazia decentrata, nel senso più alto del termine, agile e reattiva, che sappia rispondere alle necessità delle imprese e che incoraggi pratiche innovative e lodevoli come quelle di carattere partecipativo, che nella seconda fase della crisi hanno conosciuto in veneto, anche attraverso il subentro dei lavoratori nella gestione dell’impresa, una nuova forma di rigenerazione aziendale.
Una forma di autonomia che deve essere finalizzata anche alla valorizzazione delle amministrazioni locali, promuovendo ulteriormente pratiche di fusione e aggregazione tra piccoli comuni, al fine non solo di razionalizzare le spese, ma anche di consentire una maggiore unità di intenti nell’amministrazione del territorio e nella programmazione della stessa, superando campanilismi anacronistici che nuocciono ai cittadini, specialmente in alcune zone del territorio veneto che si differenziano negativamente per i dati occupazionali e reddituali e che, se non vogliono rischiare la progressiva desertificazione industriale e il lento spopolamento, devono ottenere maggiore considerazione dal governo regionale attraverso il peso politico e istituzionale dei propri amministratori.
Un modello che tenda verso il principio della responsabilità, valore cardine dell’etica di Destra, volto a valorizzare le qualità delle classi dirigenti locali e del quale anche le regioni meridionali potrebbero beneficiare, se è vero che la condizione di svantaggio rispetto alle regioni del nord non rappresenta una condanna irreversibile, ma, come dimostrano gli ultimi 50 anni di storia del Veneto, un dato assolutamente migliorabile, lasciandosi alle spalle un passato di assistenzialismo che evidentemente, nonostante la grande profusione di risorse, non ha prodotto i risultati auspicati, e dove le condizioni di una regione come la Sicilia dimostrano che una forma di eccessiva autonomia, unita all’insipienza di chi finora ha governato, non porta benefici.