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Home L'Editoriale

Quelle belle bandiere che sventolano su Kabul. Nonostante tutto

di Gian Micalessin
21 Agosto 2021
in L'Editoriale
1
Quelle belle bandiere che sventolano su Kabul. Nonostante tutto
       

Li abbiamo illusi, traditi, abbandonati. Eppure qualcosa è  rimasto. Un seme leggero, germogliato nel fango del  voltafaccia. Un seme, raccolto e coltivato per ora da pochi audaci, ma capace di regalar coraggio anche ad altri. E sollevare brezze di speranza. Ce lo suggerisce  l’ardimento   quasi temerario di chi da Jalalabad,  nell’est del paese,  fino ad Assadabad, tra le montagne dell’Hindu Kush,  e – da ieri pomeriggio –  anche a Kabul,  non ha paura di  sventolare  la vecchia bandiera afghana, celebrare l’indipendenza del paese, ripudiare  l’oscurantismo dei nuovi padroni.

Una rivolta spontanea e sorprendente che marca il paradosso di  un 19 agosto,  anniversario dell’indipendenza dall’impero inglese, celebrato mentre il paese infila il  tunnel di una nuova, tetra  dominazione. Ad Assadabad, un centro del Kunar a 19 chilometri dal Pakistan,  la rivolta s’accende quando alcuni giovani inneggiano  all’indipendenza e issano  la  bandiera nazionale in piazza. Non è quella bianca  dei talebani  con i versi  della “shahada”, la testimonianza di fede dell’Islam. E’ il tricolore nero,  rosso e verde del deposto governo. E’ quella dell’Afghanistan scioltosi come neve al sole.

La risposta dei nuovi signori è inevitabile. Ma i giovani non fuggono. E a loro s’unisce  una folla di un centinaio di persone. Difendono il loro simbolo,  accoltellano uno dei barbuti. A quel punto i kalashnikov talebani sparano a raffica,  uccidono  due manifestanti mentre gli altri fuggono. Ma non è finita. Alla rivolta della piccola Assadabad segue quella della grande Kabul. D’improvviso  un tricolore lungo 200 metri trascinato da un gruppo donne in burqa attraversa il centro inseguito da un corteo di centinaia di persone. In un attimo le voci di si uniscono in un solo grido  “Lunga vita all’Afghanistan. La nostra bandiera  è la nostra identità”.

E’ una sfida aperta all’emirato, ma i talebani, forse sorpresi, forse fedeli al canovaccio che li vede interpreti  di un’inattesa  moderazione, non hanno il tempo di reagire. L’inattesa clemenza  fa a pugni con la violenza registrata 24 ore prima a Jalalabad  dove  i talebani hanno sparato ad altezza d’uomo uccidendo cinque dimostranti. E mentre tra le strade di Jalalbad si continua a a sparare e morire resta assai difficile dire se tutto ciò sia un fuoco di paglia o una nuova resistenza.

Di certo i sussulti di Jalalbad, Assadabad e Kabul non sono cosa da poco.  Nel  1996 quando i talebani conquistarono  per la prima volta  il paese  nessuno pensò a scappare. O a protestare. Allora nessuno s’indignò davanti ad un’integralismo opprimente deciso a spegnere radio e televisori, segregare  le donne,  sgozzare gli apostati e mozzare mani e piedi a ladruncoli e delinquenti. Allora quell’ordine nuovo era  sconosciuto, ma anche benvenuto. Metteva fine alle razzie alle vessazioni, alle violenze  dei capi mujhaeddin che, ritiratisi i sovietici,  si erano trasformati in arroganti signori della guerra.

Stavolta è diverso. Nonostante gli innumerevoli errori la presenza occidentale s’è lasciata dietro  illusioni forse avventate, ma  irrinunciabili.  Illusioni nel nome delle quali le  donne non accettano di tornare prigioniere dei burqa e  gli abitanti delle città non si riconoscono più negli  ordini di un mullah o nella legge del Corano. Nonostante i nostri voltafaccia gli afghani non   dimenticano l’ebbrezza della libertà. Non possono scordare il sogno di un Afghanistan capace di misurarsi  con il resto del mondo. E non tollerano l’inganno talebano. A differenza di noi sono i primi a non credere alla favola dei “tale-buoni” migliorati con il tempo come il vino.  Sono i primi a ricordarci che anche i terroristi dell’Isis distribuivano video e maneggiavano telefonini,  ma non per questo erano  democratici  e clementi. Gridano  “la bandiera è la nostra identità”. E c’insegnano il coraggio di combattere nel nome di quello che abbiamo loro insegnato.

Tags: Afghanistan
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Commenti 1

  1. Gabriele Baraldi says:
    2 anni fa

    Ora considerando l’adagio “chi rompe si tiene i cocci” (naturalmente gli afghani non sono cocci) non si comprende per quale motivo nazioni che non hanno partecipato alla missione militare in Afghanistan debbano farsi carico della responsabilità, assumendo la volontà di ricevere migliaia di profughi ? Come al solito il CONTE GENTILONI e SASSOLI aggiungono al disastro umanitario la loro dose di viltà. Come scritto in un vostro articolo i responsabili/colpevoli di questa vergogna hanno un nome a tutti conosciuto a cui si stanno aggiungendo le istituzioni europee.

    Rispondi

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