Una domanda netta e precisa: è pensabile che l’Italia continui ad essere un Paese avanzato senza una compagnia telefonica nazionale, senza un’industria dell’acciaio in grado di alimentare una più vasta filiera produttiva, senza una sua compagnia aerea, parte di un sistema di mobilità, capace di trasportare persone e merci nel mondo? Un’altra domanda: la Francia o la Germania consentirebbero a noi italiani di acquistare la loro principale azienda telefonica o una banca di sistema? Le risposte sono alquanto ovvie. Sono anche nei fatti perché quando in epoche non lontane imprese italiane tentarono di acquisire società strategiche in Francia furono messe bruscamente alla porta. La solita spocchia dei corifei al servizio dei poteri forti porta, in queste ore, a bollare come becero «nazionalismo» le preoccupazioni di chi esprime perplessità su quanto sta accadendo in Telecom o potrebbe accadere ad Alitalia.
La sovranità nazionale non è un concetto vago e astratto, è una nozione che si sostanzia di diversi elementi fra cui l’indipendenza economica, che costituisce un pilastro fondante. Lo ricorda il grande giurista Carl Schmitt, non c’è una vera sovranità senza la capacità di autodeterminare le proprie sorti economiche, senza poter realizzare sviluppo. L’Italia ha già pericolosamente abiurato all’indipendenza energetica, ora con queste ultime mosse e soprattutto con la latitanza della politica rischia un altro passo verso il declino finale e la marginalizzazione.
C’è una materia di studio fondamentale e da qualche anno accantonata nelle scuole e nelle università: la geografia economica. Ebbene, la geografia economica italiana ci dice che il nostro è un Paese di poco più di trecentomila chilometri quadrati e sessanta milioni di abitanti. Siamo geograficamente più piccoli della Francia e della Spagna, oltre che della Germania, ma siamo densamente popolati.
In questo contesto, senza materie prime, possiamo vivere soltanto di economia di trasformazione, cioè trasformando le materie prime in prodotti con la nostra atavica capacità di interpretare il bello e la nostra cultura millenaria. Questo ci ha assicurato per decenni il benessere, questa è stata la strada che nel dopoguerra ci portò al miracolo economico. Ma questa vocazione storica ad essere economia di trasformazione richiede una forza di sistema, una sovranità economica nazionale.
L’Italia in poco più di un anno ha versato al fondo salva Stati deliberato dall’Unione Europea (ESM European Stability Mechanism) quasi 53 miliardi di euro, una cifra stratosferica con la quale si sarebbe potuto abbattere l’Imu, contenere l’Iva, salvare gli esodati, abbassare il cuneo fiscale, fare investimenti per ridurre la disoccupazione giovanile. Il paradosso è che questi soldi, tirati fuori attraverso il massacro fiscale degli italiani, non sono finiti né ai greci né agli spagnoli, sono andati in parte alle banche tedesche esposte con Atene, secondo i voleri di frau Merkel, e in parte alle banche spagnole che ora finanziano Telefonica nella scalata a Telecom. Tradotto abbiamo pagato per farci sottrarre una delle poche grandi aziende italiane, ancora capace di generare 11 miliardi e mezzo l’anno di utile operativo lordo.
Un giorno si e un giorno no, l’Italia viene bacchettata dai vari Olli Rehn perché il rapporto deficit/Pil rischia di sfondare il limite del 3,0 per cento, questo mentre la Francia è al 4,1 per cento e l’Olanda al 3,6. Facile notare che ci sono due pesi e due misure: ai francesi e agli olandesi sono consentite libertà (quindi investimenti) negati all’Italia.
L’altro ieri il presentabilissimo premier conservatore britannico David Cameron ha messo in chiaro che i rapporti in seno all’Unione Europea vanno rivisti, invocando un «negoziato radicale». Quella britannica è la seconda economia europea ma i britannici contribuiscono all’Ue meno dell’Italia per effetto del rebate, scelta virtuosa per gli inglesi, imposta da Margaret Thatcher, che ancora oggi permette al Regno Unito di ricevere più di quanto spenda. Il richiamo alla sovranità economica non è un mero principio, è un valore che significa sopravvivenza, la possibilità di mantenere quello che hanno costruito i nostri padri.
L’Europa non è certo quella dei popoli auspicata da De Gaulle, è una sovrastruttura di poteri che garantiscono la grande rendita finanziaria e interessi opachi. Agli inizi del Novecento Giovanni Amendola coniò per La Voce di Giuseppe Prezzolini un motto: «L’Italia come oggi è non ci piace». Questo appello può essere riproposto: «L’Europa come oggi è non ci piace».