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“Reshoring” contro globalizzazione. È tempo di riportare a casa le nostre aziende

di Mario Bozzi Sentieri
20 Settembre 2022
in Home, Pòlis
0
“Reshoring” contro globalizzazione. È tempo di riportare a casa le nostre aziende
       

 

Rispetto ad ogni guerra e ad ogni grande evento di portata internazionale, anche oggi c’è un prima ed un dopo crisi. Vale per l’emergenza Covid e per il conflitto Russia-Ucraina.
La pandemia e la guerra ad Est hanno rivelato le vulnerabilità strutturali delle nostre catene di distribuzione. A venire meno le piccole e grandi certezze intorno a cui il mondo ha costruito i propri equilibri esistenziali e sociali: le frontiere aperte, i commerci e le produzioni globalizzate, l’idea di avere strumenti tecnici e metodologici in grado di affrontare qualsiasi emergenza, di utilizzare intelligenze, perfino artificiali, capaci di sbrogliare anche le matasse più aggrovigliate. Così non è stato.
Al contrario ecco emergere – a livello internazionale – le nuove frontiere segnate dal reshoring, con cui appare urgente confrontarsi, a livello nazionale ed europeo, visto il protagonismo degli Stati Uniti e della Cina.
Reshoring è il fenomeno economico con cui si identifica il rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano portato la produzione fuori dai confini nazionali. E’ l’opposto di offshoring, il processo di delocalizzazione delle produzioni, che ha segnato l’ultimo trentennio.
Quest’anno gli Stati Uniti hanno già riportato a casa 348.000 posti di lavoro. E’ un segnale significativo, punteggiato da nuovi, attesi, investimenti da parte di alcune importanti aziende statunitensi: dalla Micron Technology dell’Idaho, intenzionata ad allargare il suo quartier generale e la produzione di memoria (con una spesa di 40 miliardi di dollari) alla Ascend Elements, che spenderà un miliardo di dollari per aprire una fabbrica di batterie al lithium nel Kentucky; dalla sudcoreana SK Group impegnata a creare centri logistici, sistemi di ricarica delle auto elettriche ed idrogeno nel Tennessee alle nuove fabbriche dell’alluminio e dell’acciaio impiantate in Alabama e in Arkansas, allo spostamento della produzione dei chip nella zona di Phoenix da parte di Intel e Taiwan Semiconductor, prima operative a Taiwan.
Le aziende italiane non sembrano immuni da questa tendenza. Marchi d’eccellenza del “made in Italy” stanno rivedendo le loro scelte relativamente ai processi di globalizzazione. Le cause ? Il costo dei trasporti a distanza (con l’aumento dei noli), le incertezze determinate dal conflitto tra Russia ed Ucraina, le politiche restrittive di Pechino a fronte dell’emergenza Covid, la riscoperta della maggiore qualità del personale specializzato in Italia, le nuove frontiere della digitalizzazione.
In sostanza: maggiore rapidità nei trasporti e negli approvvigionamenti, un migliore controllo sulla produzione, più alti standard nell’innovazione, sia a livello creativo che produttivo, ma anche il volere confermare – come dichiarano i vertici di molte aziende del settore della moda – il valore di italianità del marchio.
Rispetto a questo quadro in movimento si può allora dire che non tutto è perduto nella sfida antiglobalista. Importante, in questa fase di passaggio, politico e non solo, è cogliere le trasformazioni in atto ed “attrezzarsi” di conseguenza. A partire certamente dalle domande delle aziende, che richiedono pronte risposte dai territori, ma soprattutto, a livello di Sistema Paese, rispetto alle grandi questioni della modernizzazione, delle infrastrutture, dei tempi della burocrazia, della formazione ed oggi – di strettissima attualità – degli approvvigionamenti energetici. In generale si tratta di fare crescere una nuova consapevolezza produttivistica per l’Italia, declinando ragioni metapolitiche (identititarie) e buon governo, laddove la stagione del reshoring invita a riportare al centro delle economie il valore nazionale insieme a quello dell’etica collettiva e quindi di un’autentica socialità, rispetto a cui fissare priorità d’obiettivi e quindi investimenti. Per questo c’è soprattutto bisogno di una mobilitazione generale dell’intero Paese, nella consapevolezza che in gioco ci sono i più vasti destini nazionali, oltre che quelli economici e sociali di una parte.
Nella misura in cui l’Idea di Nazione non si esprime esclusivamente nella difesa di una memoria, solo una rinnovata solidarietà patriottica, costruita anche sull’appartenenza territoriale, sulla comunità di destino, sulla tutela/valorizzazione delle produzioni, sulle competenze, potrà dimostrare il suo valore.
Oggi più che mai il vero patriottismo è anche produttivistico o non è. Ed il reshoring sembra andare in questa direzione. Esserne consapevoli è il primo passo per uscirne vincenti rispetto alle nuove sfide della post globalizzazione.

Tags: economiageopoliticaglobalizzazionesovranità economicatrasporti
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