Buona notizia che la Pixar ambienti “Luca” in Liguria. Assai inquietante che sia un evento: una volta (nemmeno tanto tempo fa), le grandi produzioni cinematografiche in Italia (o italiane) erano all’ordine del giorno.
Lodevole l’iniziativa “Solo al cinema”: promuovere il ritorno in sala dei film – e degli spettatori, finalmente liberi.
Purtroppo, il risultato è lo spot “Ricordi di una vita”, con la (solita) retorica da “Nuovo Cinema Paradiso”: le (solite) immagini di tale film scandiscono il (solito) montaggio di scene ambientate in sale cinematografiche, in nome della (solita) poetica della macchina dei sogni e via dicendo. Sarebbe bello liberarsene, ma per carità: in una situazione grave come quella in cui il “lockdown” ha sprofondato il cinema, c’è poco da fare gli schizzinosi.
Non fosse che, passando oltre la banalità del montaggio, ci si scontra con la voce atona, sgraziata, spenta della “pin-up” di Città di Castello.
Possibile che un rilancio non debba partire da rappresentanti più degni, più capaci, più presentabili? Possibile che ci si debba rinchiudere sempre in questo provincialismo, sempre in questa mediocrità, sempre in questi luoghi comuni? C’è stato un momento, intorno al 2010, nel quale la retorica del “Made in Italy”, alla lunga un po’ tediosa, aveva comunque offerto un qualche slancio, una carica, dell’energia. Dopo di che si è sprofondati ancora in questa dimensione volutamente piccola. E allora l’Italia resta col fiato sospeso per Laura Pausini candidata agli Oscar per la miglior canzone, come se fosse una grande artista, un vanto nazionale, come se fosse un fatto epocale che un’italiana sia nominata agli Oscar: non fosse che negli anni ’60 Fellini (che lo scrivente non adora, ma che non ci sia confronto coi suoi successori è fin troppo ovvio) monopolizzava le statuette per il miglior film straniero.
Oh ma che gioia, oh ma che bello, un’italiana agli Oscar, e chi non è contento è un disfattista. Il disfattismo c’entra eccome, anche riguardo l’Oscar (premio ormai deprivato di qualsiasi dignità): perché fare il tifo per una cantante stonata è sintomo di sfiducia – questo abbiamo, di meglio non sappiamo fare, accontentiamoci, allonsanfàn, noi speriamo che ce la caviamo. Gli autentici anti-italiani sono quelli che gonfiano il petto per questi baracconi: quelli che si accontentano, i buzzurri che cantano “poropò” durante l’inno (no, non mi riferisco al tormentone – noioso, ma pazienza – di Totti: ma alla fanfara fatta con la bocca all’inizio e a metà dell’inno nazionale), quelli che non sanno apprezzare il provincialismo genuino, strapaesano (l’Italia “minore”, remota, tradizionale: arretrata e coltissima).
Ho appena visto “Tre passi nel delirio”, adattamento (deludente) di tre racconti di E.A. Poe: due registi francesi (Vadim e Malle: uno pessimo, l’altro promettente ma mai realizzatosi) a fare da “sparring partner” a uno italiano (il sopracitato Fellini, regista dell’ultimo episodio: quello, si direbbe nel pugilato, “di cartello”) e un cast internazionale (i fratelli Fonda, la Bardot e Delon, Terence Stamp: i divi, tutti bellissimi, più richiesti del momento – era il 1968): tutti radunati dal napoletano Alberto Grimaldi (un genio), che era un portento ma non era il produttore italiano più potente dell’epoca. Già, era una produzione italiana: e non era nemmeno particolarmente imponente. Mezzo secolo fa non c’era nulla di strano, in un film italiano con protagonisti di rilievo internazionale. Ora, quando qualche attore italiano partecipa da comprimario a una serie televisiva americana, lo si saluta col fazzoletto in aeroporto. E se la Pixar ambienta un film d’animazione in Italia, sembra un fatto epocale: gli americani si sono accorti di noi!
Poi l’incanto è finito. Sparita la generazione di Grimaldi, Ponti, De Laurentis (Dino), si è esaurita la capacità di pensare in grande: e gli americani non sono stati più dei rivali (alla pari, per essere generosi con loro), ma dei modelli irraggiungibili, dei titani da compiacere. Un punto di svolta è stato, perciò, un film orribile: “Mediterraneo”, premiato infatti agli Oscar del 1992 (a discapito di un’autentica pietra miliare, “Lanterne rosse” di Zhang Yimou: si può essere più cretini?), sanzione dell’umiliazione del cinema italiano e degli italiani, ridotti (consenzienti) ai soliti luoghi comuni: furbetti, mascalzoni, pusillanimi, scansafatiche – sembra di vedere la gag (meravigliosa) di “Pappa e ciccia” con Paolo Villaggio nei panni di Inga, infermiera tedesca (e nazista) psicolabile che non si dà pace del fatto che Lino Banfi non porti i baffi neri, non suoni il mandolino e non mangi spaghetti tutto il santo giorno.
Cosa frega allo scrivente, andato in un multisala a vedere un film horror americano (con protagonista Emily Blunt: una volta a Hollywood supplicavano le attrici italiane brave e belle di andare negli USA, adesso le cercano in Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Australia), che questo sia stato preceduto da un filmato, commissionato da un produttore italiano, con una voce narrante non proprio entusiasmante? Parecchio.
Al di là della frustrazione (lo scrivente, che non si occupa di cinema per mestiere, ha appena visto crollare le chance di partecipare a un film cui teneva tantissimo; che la “rinascita” del cinema sia reclamizzata con la voce di chi si fa pagare da decenni per fare film senza esserne capace è qualcosa peggio d’una beffa) gliene importa molto, perché reclamizzare una rinascita restando al cospetto dell’idoletto di Monica Bellucci significa rifiutarla, questa rinascita. La tentazione è di fare come Nanni Moretti (un responsabile di questa situazione, perché il filone di film sulle liti famigliari della borghesia romana rinchiusa in salotto è in gran parte colpa sua, le grida della Rohrwacher sono figlie di quelle che lui faceva fare alla Buy), e inveire: vi meritate le commedie che non fanno ridere con le locandine sempre uguali, vi meritate i film dei comici televisivi, vi meritate il figlio di Gassmann che si spaccia per attorone impegnato, vi meritate la fuffa pretenziosa in stile “La grande bellezza”, vi meritate Donato Carrisi che fa le parodie del “Silenzio degli innocenti” con gli attori scarsi che fanno i serial killer da telefilm che sospirano per darsi più carisma e sintomatico mistero, vi meritate i nuovi attori che escono da accademie dove gli si insegna malissimo il mestiere per poi essere mandati, poveretti, a farsi sbriciolare da Favino (e dalla Gerini e da Renato Carpentieri… “Hammamet” è il riassunto più eloquente della frattura tra attori esperti e debuttanti), forse vi meritate addirittura Ferzan Ozpetek e persino Neri Marcorè (no, questo è troppo).
Il cinema che riparte sotto l’egida di Monica Bellucci, è come la canzone italiana portata all’estero da Laura Pausini e dai Volo. E non ci si nasconda dietro i motti con cui gli analfabeti ammazzano le discussioni (“de gustibus”, “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace” e banalità qualunquiste varie), si tratta della totale negazione della qualità (tre cantanti che dichiarano – e non ce n’era bisogno, è già ovvio – di non aver mai imparato a cantare e di non sapere chi sia Verdi restano una truffa, possono anche avere milioni di fan a dire “è bello ciò che piace” e non conterà ancora nulla, è e resta spazzatura senza qualità). Un’attrice che alla giornalista che le chiede un parere sullo scontro televisivo Clinton vs Trump (presidenziali USA del 2016) risponde, con il solito mormorio monocorde e il consueto sguardo da triglia, “non sono cose di cui si occupa un’artista” non è un personaggio pubblico presentabile, non è un’artista da cui farsi rappresentare: a meno che l’intenzione non sia quella di restare nella fogna in cui il mondo dello spettacolo italiano era già stato sprofondato da un paio di generazioni di registi pessimi (con la sola eccezione di Paolo Virzì a esprimere qualcosa di buono, qualcosa di meglio, qualcosa di più).
Se un anno e mezzo di panico da Covid (e in quella fogna resti chi chiede altre chiusure) ha oscurato il cinema italiano, non lo si riporta alla luce con Monica Bellucci a fare da madrina.
Lo si fa con personaggi che portino qualità, idee, capacità, mestiere. Non con chi non ha mai avuto un talento, un’idea, un minimo di estro, stile, carisma; non con chi a una semplicissima domanda di politica risponde con una banalità per non ammettere di non aver nulla da dire, di non pensare nulla, di non sapere nulla, di non fare nulla. Si cerchi qualcuno che il mestiere dell’artista lo sa fare, lo ha imparato, lo ha studiato, chi ci fatica, e ci si liberi dal “sex symbol” più imbarazzante e meno affascinante che sia mai stato piazzato davanti a una cinepresa.
Sia mai che il cinema italiano torni quello dei soliti nomi da manuale, De Sica e Visconti e Monicelli e Risi, questo è solo un sogno; ma potrebbe essere la volta buona che smette di essere quello delle figlie di Comencini e di Luchetti, di Salvatores e Tornatore, di Pif e Ferrario, dei ragazzini che fanno gli schizzinosi con i fratelli Vanzina e si danno arie citando Sorrentino.