Il racconto biblico della torre di Babele ha un fondamento storico o possiede un valore propriamente, ed esclusivamente, di carattere teologico? Ci narra eventi realmente accaduti o si pone interrogativi esistenziali e sapienziali? Sono domande decisamente mal poste che mettono in competizione il vissuto con il vivente, l’essere con l’essenza, la realtà con il pensiero. Il racconto di Gn 11, 1-9, invece, denota un carattere metastorico, cioè possiede la capacità di permanere attraverso il succedersi di precisi fatti ed eventi storici, mantenendo la capacità di esplicarli, di spiegarne l’eziologia, le cause e le ragioni profonde. Semplificando al massimo, evitando falsificazioni e banalizzazioni, potremmo dire che lega indissolubilmente il particolare al generale, la terra al cielo, il tempo e l’eterno.
Prima di entrare nel dettaglio della riflessione, riportiamo integralmente il testo in questione: “Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”.
LE RICERCHE ARCHEOLOGICHE
Procediamo con cautela, ponendoci una serie di interrogativi preliminari circa la forma, le funzioni e le ragioni dell’esistenza di queste antichissime costruzioni umane, opere mesopotamiche passate alla storia con il nome di ziggurat, ancora oggi custodi di segreti e misteri irrisolti: “L’etimologia non ci è di grande aiuto. La forma ziqquratu è collegata al verbo zaqaru, che significa “essere alto, elevato”. Il termine ziggurat è adoperato sia per caratterizzare la vetta di un monte che per definire la torre a piani” (A. Parrot, Archeologia della Bibbia, dal Diluvio universale alla Torre di Babele, trad. di E. Navarra, Newton Compton Editori, Roma, 1978, p. 97).
Il termine indicava, pertanto, sia un edificio che un luogo naturale, realizzando un primo sovrapporsi tra piani apparentemente diversi, l’umano, il divino e il mondo naturale. Una suggestione decisamente affascinante sorge spontanea: e se l’antica torre fosse un monte, un colle, un luogo naturale sopraelevato? Il racconto biblico sembrerebbe escluderlo, ma le provocazioni non andrebbero mai ignorate. Il sapere si costruisce a piccoli passi, soprattutto quello storico, onde evitare rovinose cadute negli insidiosi crepacci della memoria. La funzione della ziggurat è tuttora oggetto di aspre controversie: piattaforma su cui i califfi di Bagdad trovavano frescura e rifugio dalla puntura molesta degli insetti (cfr. ibidem); luogo di culto funerario, quale tomba di un dio o un re (cfr. ivi, p. 98); architettura cosmologica e simbolica (cfr. ibidem); stanza del trono divino, altare per eccellenza (cfr. ivi, p. 99); “uno zoccolo gigante, destinato in realtà a sostenere un santuario, dimora della divinità” (ibidem).
Quest’ultima ipotesi, tuttavia, è andata rafforzandosi e imponendosi, divenendo di uso comune: il tempio come la casa dell’Onnipotente. Concezione tuttavia problematica dal punto di vista del pensiero giudaico, dal momento che per gli Ebrei, come è noto, Dio non risiede in case fatte di mattoni, non lasciandosi “cosificare” dalla mano e dal pensiero degli uomini. Egli resta il radicalmente altro, il limite insuperabile dalle capacità umane che, solo per sua volontà insondabile, decide di stringere alleanza e amicizia con la creatura, con il suo popolo, facendo della storia un cammino verso i luoghi e i tempi della promessa escatologica.
La ziggurat era concepita, quindi, come un luogo di elevazione umana, tanto fisica quanto spirituale, ma soggetta a un rischio gravissimo, cioè quello dell’eresia e della conseguente caduta, riconducibile al maldestro tentativo di acquistare dal divino medesimo favori e benefici, dietro offerte materiali o preghiere del tutto interessate: “Zoccolo e terrazza erano il primo slancio dell’uomo bramoso di elevarsi. Ma la sua preoccupazione essenziale lo volgeva ancor più verso il dio che bisognava sollecitare e che sarebbe stato certamente attratto dalle offerte portate sul tetto della sua casa” (Ivi, p. 100).
Un dio da ammansire, da toccare, da violare, di cui disporre a piacimento, anche per esorcizzare l’umano timore verso l’assoluto e la morte. Dalla storia si slitta facilmente al significato morale, giudicando come colpevole e meschino un simile comportamento: “In genere si mira a ritrovare qua e là, nel racconto di Genesi, XI, una morale molto più che una storia vera; e ci imbattiamo di nuovo nella tesi, già segnalata, dell’esattezza “sostanziale” delle relazioni, che però non esclude delle “inesattezze nei particolari”.
LA CONFUSIONE DELLE LINGUE
Eppure la narrazione biblica della torre di Babele ci sembra profondamente “storica” per tutte le sue minute precisazioni, frutto di meticolose osservazioni e di realtà da noi già rilevate. Ma questo racconto è ancor più teologico e giudica severamente questa impresa degli uomini: edificando la loro città e la loro torre, e riuscendovi grazie alla loro unità (un medesimo popolo, una medesima lingua), essi suscitano il timore e il corruccio di Dio. Tale successo, cui potrebbero seguirne altri, è quindi una minaccia intollerabile e Dio la spezza senza esitare, creando la confusione e facendola seguire dalla dispersione” (Ivi, pp. 102-103).
Ecco spiegato, o almeno sembrerebbe, il peccato degli uomini: “Il sottile paganesimo che risiede in ogni anima, anche religiosa, che vuole a ogni costo salire verso il cielo per costringere la divinità a discendere” (W. Suffert, in “Le Christianisme au XX siècle”, 2 marzo 1950). L’idolatria e il paganesimo,, compagni di viaggio della nostra epoca, quanto di quelle passate, potremmo sentenziare.
Ma siamo così sicuri che l’autentico e profondo messaggio del testo sia esclusivamente questo? Esistono, forse, altre chiavi di lettura? Il Duomo di Milano, con tutte le sue guglie e i suoi vertiginosi pinnacoli, sarebbe forse la manifestazione visiva di antichi vizi ed errori?
Difficile non condividere il seguente pensiero di Perrot: “Si può rimproverarli di aver voluto avvicinarsi al cielo, cioè alle loro divinità? Ecco il problema. Se sì, allora si sia coerenti: si condanni allo stesso modo ogni iniziativa dell’uomo, le torri di Notre-Dame, le guglie della cattedrale di Chartres. E poi, confessiamolo pure: questo Dio irascibile, che di sua mano viene a mettere la discordia, fonte di tutte le guerre e di tutti gli odi, nel cuore dell’umanità allora unita, e perciò in pace, pone un problema dogmatico che andrebbe valutato in tutta la sua gravità” (A. Parrot, Archeologia della Bibbia, p. 104).
E inoltre, come si spiegherebbe la vicenda biblica del sogno di Giacobbe, la famosa Scala Mistica: “Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco, il Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto”. Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacobbe fece questo voto: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti da coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima” (Gn 28, 10-22).
Dio concederebbe, pertanto, a Giacobbe quello che invece non tollerò dal popolo di Babele? Pur non essendo interesse di questo breve articolo sondare l’impossibile, avventurandoci nel piano degli intendimenti divini, spingendoci oltre il testo veterotestamentario, credo che sia opportuno incamminarci lungo un sentiero alternativo, lasciandoci guidare da un commento al testo presente nell’ed. Ancora de La Bibbia, a cura di B. Maggioni e G. Vivaldelli, Nuova traduzione (2008) della Conferenza Episcopale Italiana: “Lo scopo del racconto della Torre di Babele è far conoscere, dalla prospettiva di Dio, l’orgoglio e la supponenza delle persone. È scritto con un genere letterario eziologico, e non vuole insegnare l’origine delle lingue. I conflitti tra le persone non sono causati dalla differenza delle lingue, ma dall’orgoglio che ci impedisce di ascoltare e ci spinge a ingannare e a dominare gli altri. Nessuna azione provocata dalla superbia porta a Dio; al contrario essa lo offende perché egli ha creato tutti con la stessa dignità” (p. 76).
In queste poche parole troviamo riassunto il nodo centrale, simbolico, ma concretissimo, che anima e conferisce al racconto una dimensione metastorica, in grado di spingersi oltre i meri accadimenti descritti.
UN MONITO TRASVERSALE E SEMPRE ATTUALE
La vicenda di Babele è attuale, trasversale a ogni epoca: quella torre è sempre davanti ai nostri occhi. Periodicamente qualcuno tenta di ricostruirla, inanellando successi effimeri. La questione è il rapporto dell’uomo con il suo simile, con il fratello. Tema già emerso nel confronto dialogico tra Dio e Caino, dopo la violenza compiuta da quest’ultimo nei confronti di Abele: “Il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!” (Gn 4, 9-10).
Il progetto di costruire una torre per giungere al cielo è malvagio, nelle modalità e nelle intenzioni. Si parla di un unico popolo e si ode una sola voce, ma non c’è coesione, libertà e fratellanza. La voce è quella del potere, del padrone, che guida masse di uomini resi schiavi, strumenti per compiacere il proprio orgoglio e la propria smisurata ambizione. Le genti sottomessse non possono parlare, esprimere opinioni, devono limitarsi a ubbidire, a lavorare come bestie da soma. Non c’è pace e giustizia: ovunque regna la legge del più forte che impone a disperati e indifesi il suo volere, il suo pensiero e il suo credo. La torre è un modo per giustificare agli occhi di Dio simili soprusi, per comprarne la compiacenza e la complicità, ma Egli tali doni intrisi del sangue dei vinti li respinge, li rifiuta, li considera un abominio imperdonabile. Il nazismo, il comunismo sovietico e qualsiasi regime fondamentalista: agiscono tutti, da sempre, nella medesima maniera, minando le differenze naturali e storiche, riducendo al silenzio qualsiasi opposizione, spacciando tali atrocità per azioni buone e giuste, compiute in nome di un ideale, di un valore o di un dio.
Nel racconto biblico, Dio interviene per salvare l’uomo da se stesso, non per punirlo: le lingue, le identità, le culture, le differenze stanno alla base della civiltà, del vivere, della potenza creatrice di ogni atto autenticamente libero. Kabul è la nuova Babele e amaramente la storia si ripete.
Ma se le vittime sono ben riconoscibili nei volti tormentati di vecchi, donne e bambini, in fuga dall’inferno in terra, più arduo risulta essere l’individuazione dei colpevoli, dei “cattivi” della storia. Autoassolversi puntando il dito sull’Afghanistan, sulla sua arretratezza culturale, sul suo retroterra tribalistico, se non addirittura sulla geografia che lo renderebbe ingovernabile e, in definitiva, impenetrabile alla cultura e alla civiltà tipicamente occidentali, risulta essere un atto egualmente colpevole, fazioso e arrogante. La politica statunitense ha fallito su tutti i fronti e con essa l’Occidente medesimo. Vent’anni di guerra, di sacrifici economici e umani, non hanno reso il mondo un luogo più sicuro, rinvigorendo, invece, irrazionalità diffuse e avvelenando le acque dei rapporti internazionali. La finta globalizzazione dei diritti umani ha creato divisioni e spaccature, ampliando la forbice tra nazioni ricche, sempre più ricche, e i luoghi dimenticati del globo, sfruttati, derubati, sedotti e infine abbandonati al proprio destino. La frusta che colpisce il reietto non arreca meno dolore se a levarla è un nuovo tiranno. Non indossiamo la maschera del patetismo, ma preghiamo affinché si accenda in noi la grazia della vergogna.