Quante e quali le aspettative per la “nuova Europa” all’indomani dei conflitti mondiali, il sogno di un federalismo vero e genuino, democratico, di una pace perpetua all’insegna del mutuo aiuto…Oggi però basta guardare alle dinamiche ricattatorie in atto verso paesi di confine e non con esigenze geografiche e politiche peculiari (regolarmente ignorate o schernite dall’establishment europeo) come la Polonia, l’Ungheria, per capire come in questa Europa infondo non si sia fatto altro che trasformare i rapporti di forza offensiva militare in rapporti di forza economici. Il risultato è solo una nuova oppressione totalitaria di fatto, forse anche più pervicace ed infame di quelle “armate” del primo novecento, in quanto senza gli agganci economici un paese europeo non ha nemmeno i mezzi per opporsi disperatamente alle decisioni calate dall’alto. Spossessato di ogni autonomia vive infatti con il terrore di essere multato, o peggio espulso e nullificato, tratto fuori con la forza dalla dimensione necessaria al sostentamento materiale del suo popolo.
Proprio in virtù dei teoremi europei, oggi si ha per assioma che determinati schieramenti politici non possono vincere le elezioni nazionali: appena si insedia un governo sospetto per Bruxelles (se mai ci riesce, tra le bordate di fango di marca progressista) partono le reprimende, e le varie forme più o meno dirette di embargo. Se il governo “appestato” insiste a voler governare come da mandato, si iniziano ad innescare movimenti tellurici ad hoc dall’interno per portarlo ad una repentina caduta, con successiva instaurazione di un “migliore” governo tecnico atto a cancellarne gli effetti, e per buona misura ci si approfitta dell’occasione per attuare qualche pagina in più dell’agenda europea, giusto perché sia valso il disturbo per la Troika. Se poi alle successive elezioni i cittadini – sgridati come mocciosi dai burocrati e dai media – fanno i bravi e votano “secondo ciò che gli conviene” (De Benedetti dixit, giusto qualche giorno fa), eleggendo un governo fortemente europeista, allora benissimo. Se scoraggiati non votano del tutto, ancora meglio: avanti con un nuovo governo tecnico e vento in poppa.
Ma da dove nasce questa deriva fallimentare? Molto saggiamente Sir Roger Scruton nel suo “How to be a conservative” (2014) ammoniva sulle possibili storture nell’impostazione a un tempo ideologica e antidemocratica dell’establishment europeo che da decenni si va consolidando. Sir Scruton individua l’origine di questa crisi nella latente critica all’idea di nazione, scaturita tra le macerie dei conflitti mondiali. In realtà in questa frenesia per la pacificazione totale subito all’indomani di un conflitto totale – peraltro dagli esiti fallimentari, dal momento che ha solo cambiato la geografia e le armi dei conflitti cosiddetti mondiali, anziché porvi fine – ci si è dimenticati che i nazionalismi sono nati non dall’idea di nazione e di unità di territorio, bensì dalla sua perversione, che si ha quando la si usa per colmare il vuoto lasciato dalla “morte di Dio”. Ciò ha portato tristemente a considerare la nazione stessa con attributi del divino, assegnandole una missione salvifica circoscritta ad un popolo “eletto”, vera inversione satanica dell’idea di stato uscita dalla rivoluzione francese.

Questo lo si voleva si voleva caratterizzato da una divisione netta tra diritto divino e secolare, con il principio laico razionalista a fare da guida, e la conseguente intesa che in caso di conflitto debba prevalere il diritto laico su quello sacro. Nemmeno un Robespierre avrebbe voluto indebolita l’idea di nazione, anche perché l’unità territoriale dello stato nazione è proprio ciò che consente la pace in quanto unione intorno a valori condivisi, nuovo “patto” secolare che si volle alternativo ai legami della nobiltà e della consuetudine caratteristici dell’ancien regime, che tanto erano deprecati dalla cultura illuministica e quindi rivoluzionaria. I compromessi tra maggioranza e minoranza su cui si fonda la democrazia peraltro funzionano solo ove si presupponga un comune identità, un noi, entro cui ci si accetta reciprocamente malgrado i disaccordi. Si corre un forte pericolo in democrazia se si smarrisce (o sminuisce) il noi nazionale e laico di fronte a ipotetico “noi” sovranazionale e utopico. Si tratta infatti di un costrutto astratto che somiglia più a una novella religione, e in quanto tale riduce tutto alla distinzione tra fedeli – che accettano la dottrina dominante – e infedeli – che perdono ogni legittimazione.
Il dramma di quei paesi in cui ancora oggi è in vigore una legge “sacra” come la sharia per regolare i rapporti interni a uno stato e dello stato tra i suoi pari, è proprio causato dall’inflessibilità del diritto divino: se le esigenze di quel popolo su quel territorio mutano, diventa molto difficile riattaccare il tessuto del sacro ai bisogni delle persone in carne ed ossa senza fare a pezzi l’uomo, il diritto stesso o entrambi. Quando Dio fa le leggi queste diventano misteriose quanto lui: si fanno della sua stessa sostanza. Quando noi uomini facciamo invece leggi apposite per i nostri scopi sappiamo esattamente che cosa significano per noi. Semmai quindi la domanda a questo punto diventa: chi è “noi”? Per Sir Scruton la risposta è netta: noi è la nazione, e sta per unità di territorio, idee, orientamenti, lingua, cultura, miti fondatori, tradizioni. Intesa in questa accezione è strumento supremo di pace interna ed esterna, non scheggia impazzita in un Risiko mondiale.
Nella pretesa contrattualistica di costruire un nuovo equilibrio all’indomani dei conflitti mondiali si è voluto dedurre che tutti i terribili eventi del Novecento fossero da ascrivere ai nazionalismi ergo alle nazioni e ai caratteri identitari delle stesse, e così si è subito deciso di muovere in una direzione diametralmente opposta, quasi deprecando lo stesso concetto di nazione. Da questo malinteso storico-filosofico è nata la volontà di unire i popoli per reinventare l’ordine globale nel comune interesse di una convivenza pacifica per tutti. Il problema è che non c’è nessuna prima persona plurale reale di cui gli organi attori di questo “progetto” siano espressione oggi – solo un grande Moloch immaginario, i cui altari chiamano costanti sacrifici, senza una fine. Regole e regolamenti nascono da e si fondano su trattati, che a loro volta derivano la loro autorità da quella delle persone (poche e spesso prive di legittimazione democratica) che li hanno firmati. Ora, come le leggi divine che sono frutto della volontà eterna e immutabile di Dio, così la volontà fossilizzata nei trattati, venuto meno chi li ha vergati, rimane posta in una sorta di iperuranio inaccessibile. La criticità risiede nel fatto che se un trattato come ad esempio quello di Roma siglato nel ‘57 poteva essere giusto e adatto allo scopo per le mani morte che lo hanno firmato in quell’epoca certamente non può tenere conto delle esigenze manifestatasi in epoca successiva. E così via per ogni altro dopo di esso.
Gli Stati Uniti – al contrario dell’Europa – “funzionano” (pur con tutti i limiti del caso) non in quanto impero retto da una briglia sclerotizzante di trattati, ma in quanto stato-nazione. Vi risiede un solo diritto secolare e una lingua comune, e il governo unitario è espressione di un processo democratico; c’è un territorio condiviso, che tutti gli americani possono chiamare “nostro”, ma anche dei loro figli, presenti e a venire, e c’è un patrimonio di storia e l’eredità di sacrifici comuni che tutti i cittadini riconoscono e rispettano – nonostante gli assalti della “cancel culture”. Non si sfugge a questo paradigma, e attraverso millenni non ci è giunta testimonianza di soluzioni alternative di successo: i confini nazionali, reali o comunque percepiti, così come le “nazioni” propriamente intese sono fondamentali, in quanto solo entro queste categorie è concepibile un “noi”.
Non ultima, anche la storia di come tali confini sono stati stabiliti ha una grande importanza, ci sono infatti miti di fondazione che uniscono tanto quanto e forse più di quelli di matrice teologica: per noi possono essere Garibaldi e i Mille, il Milite Ignoto, le gesta dei partigiani… A volte sono anche solo delle nobili bugie, e non manca chi le riconosce come false o almeno romanzate, ma nondimeno le rispetta, come si rispetta l’altrui religione, gli altrui sacrifici e le altrui battaglie di liberazione. È questo il “miracolo” per cui la semplice persona diventa qualcosa di più, ovvero un cittadino, e così non solo si evita la guerra, ma l’unica vera pace diviene possibile. Perso questo ancoraggio identitario comune tutto è perduto, persino l’uomo stesso, che ridotto a monade non diventa cittadino del mondo, ma scompare, trasformandosi in massa senza volto, per dirla con Evola.

Già ben diceva il Leopardi, il 3 luglio del 1820, prevedendo profeticamente la deriva che viviamo: «Ed ecco un’altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutto una patria, e l’amore fosse universale di tutti gli uomini. … L’effetto è stato che in fatto l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gli individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si sono divise in tante patrie quanti sono gli individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale».
Parole su cui meditare, e molto. Oggi più che mai.