Le grandi opere del pensiero richiedono un adeguato inquadramento storico, una sapiente contestualizzazione delle teorie espresse e una ricostruzione del percorso di composizione, o di redazione, delle medesime. Tra i capolavori della saggistica moderna rientra, a pieno titolo, il breve trattato Per la pace perpetua del grande filosofo tedesco Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804). Il discreto e riservato pensatore, abitudinario e metodico, elaborò un modello di pensiero originale che scosse le fondamenta del sapere del tempo, realizzando una “rivoluzione copernicana” in seno al rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Ripensando, inoltre, le discipline dell’estetica e dell’etica, in un’epoca di passaggio, e di contesa, tra il sentimento illuminista e le nuove istanze del romanticismo. Königsberg rientrava tra i domini dello Stato prussiano, una potenza in ascesa dal punto di vista militare, amministrativo e culturale.
Tra gli artefici di questa crescita si annoverano alcuni tra i più noti sovrani illuminati settecenteschi, quali Federico Guglielmo I (1713- 1740), Federico II il Grande (1740-1786) e Federico Guglielmo III (1797-1840). Eccezione fatta per la parentesi rappresentata da Federico Guglielmo II (1786-1797), protagonista di un ritorno reazionario a orientamenti illiberali tanto nella cultura quanto nella gestione del potere, Kant poté godere di un’atmosfera generalmente favorevole allo sviluppo degli studi e delle arti. Un impulso notevole ebbero la produzione letteraria, la ricerca scientifica, lo studio della musica e l’indagine filosofica. Fu un periodo contraddistinto da una progressiva estensione della libertà di stampa, da una diffusa tolleranza religiosa, da riforme efficaci e funzionali, riguardanti, in modo particolare, l’istruzione e il diritto. Lo Stato prussiano appariva agli occhi del mondo un esempio, un modello, di efficienza e di potere. Era rispettato, ammirato e temuto. Tra le tematiche oggetto di dibattito e di confronto non poteva, di certo, mancare la filosofia politica, a cui il nostro dedicò lo scritto, precedentemente citato, del 1795.
Per la pace perpetua muoveva da un interrogativo di fondo, cioè dalla possibilità, o meno, per l’uomo, di condurre un’esistenza pacifica. Dopo essersi interrogato, nelle sue celebri Critiche, sui fondamenti della conoscenza, sui principi della morale e sul giudizio, intorno alle categorie del bello e del sublime, indagando il mistero della libertà umana, Kant si profuse nella ricerca di quelle condizioni possibili e, a suo avviso, imprescindibili per instaurare una pace duratura. Il filosofo comprese come la pace dovesse possedere un profilo internazionale e sovranazionale, a garanzia di un ordine pacifico tra le grandi nazioni del suo tempo. Nello scritto in questione, auspicava la nascita di una federazione di Stati sovrani, contraria alla guerra quale modalità di risoluzione di controversie e di tensioni internazionali.
La guerra, secondo Kant, non faceva altro che riproporre nuovi equilibri di potere, sostituendo semplicemente quelli vecchi. Il conflitto non produceva progresso verso il fine ultimo, cioè quello di un’esistenza priva di violenze e ingiustizie. La prima delle condizioni fondamentali, indicate dal nostro, riguardava l’adozione, da parte di ogni singolo Stato, di una costituzione repubblicana, fondata sui principi della libertà dei suoi membri, sulla dipendenza dei sudditi da un’unica comune legislazione e sull’uguaglianza di tutti, in quanto cittadini. Il secondo elemento veniva individuato, invece, nella stesura di un diritto internazionale d’impronta federalista, in grado di dare vita a una lega della pace. Non si trattava di semplici trattati di pace: l’obiettivo non era quello di “porre termine semplicemente ad una guerra, [ma] a tutte le guerre e per sempre”.

Nel terzo e ultimo articolo, Kant legava il diritto cosmopolitico alle condizioni dell’universale ospitalità, cioè “[al] diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente”. Kant teorizzava, pertanto, un diritto di visita spettante a tutti gli uomini, giustificato dal “possesso comune della superficie della terra”, nonché dalla considerazione che gli spazi finiti del nostro pianeta dovessero invitarci ad un atteggiamento di tolleranza nei confronti del vicino, non potendo nessuno rivendicare un diritto assoluto ed esclusivo su una porzione specifica della terra. Condizioni raggiungibili, secondo il filosofo tedesco, solo assegnando una funzione pubblica alla filosofia: “le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la guerra”.
Il pensiero di Kant appare particolarmente attuale e moderno, nel suo appello, ragionato e ben progettato, ad una modalità relazionale tra gli Stati improntata al dialogo, alla razionalità, alla condivisione di trattati e norme rispettose tanto della sovranità quanto del diritto del singolo. Uno scritto equilibrato e rivoluzionario, avente come auspicio fondamentale quello di sondare, senza illusioni o ingenuità, le concrete condizioni a priori di ogni convivenza pacifica. L’investitura finale del filosofo, figura storicamente aperta al dubbio e propensa alla ricerca, ci ricorda come la cultura e la sapienza siano il frutto di un lento apprendistato umano, di uno sguardo libero e coraggioso, di un inesauribile desiderio di tracciare confini di senso, in un mondo troppo spesso vittima di impulsi irrazionali, facile preda di entusiasmi e furori, di eroismi da salotto sulla pelle dei soliti inermi.