Merita di essere adeguatamente riletto con una considerazione, piena e limpida, sul passato e sull’attualità, il saggio autobiografico, non il pamphlet, di Roberto Mieville, Fascists’criminal camp.La storia nascosta del campo di punizione per prigionieri di guerra italiani in Texas (1943 – 1946).
Edito in forma semiclandestina nel 1948, è stato ripubblicato nel 2015 dalle edizioni “ Il Cerchio”. E’ stato più volte diffuso, anche in rete, “fra mirabolanti errori di digitazione e variazioni testuali inspiegabili e – pertanto – attivanti forzosamente i sospetti più diversi e screditanti”. E’ stato osservato che “mentre il dibattito storiografico inerente la sorte dei prigionieri di guerra tedeschi nei Campi alleati dopo il 1945 […] ha conosciuto ormai da anni una crescita giunta a conclusioni oramai accettate e condivise ad un largo pubblico, altrettanto non può dirsi , curiosamente, per quanto attiene i prigionieri di guerra italiani”.
Il testo di Mieville occupa 71 pagine, compresa l’appendice alla IV edizione, apparso nel 1948, dopo la I di alcuni mesi prima, aperta da una prefazione di Marco Ramperti. Alcune istantanee, alcuni momenti colgono l’intensità di quei momenti, di quei giorni interminabili.
La situazione è colta nel silenzio degli italiani, trattati “come bestie”, nel calore e nel vigore espressivo della lettera di un figlio sedicenne al padre sull’”amore per quella Patria, martoriata e tradita”, accompagnata dal “fermo proposito di tenere, tenere fino all’ultimo”. Egidio Ortona, ambasciatore ai massimi livelli, nelle più importanti sedi, narrando di una visita compiuta nel 1945, ai campi dei P.O.W., ha scritto eloquentemente ed esaurientemente di un vicesegretario alla difesa: “Non sente, non capisce, o non vuole capire, tutte le implicazioni del problema, non si rende dell’accusa che verrà fatta contro l’America da migliaia di prigionieri al loro ritorno in Patria. Otteniamo per il momento solo un’ispezione ai campi di prigionia. Esco furibondo per tanta indifferenza, umiliato per la nostra impotenza”.
Della travagliata quanta drammatica esperienza Mieville segna passaggi e momenti, ancora oggi validi e principalmente eloquenti. Del periodo trascorso, durante i lavori sulla Transahariana, in cui “gli italiani morivano come mosche”, lamenta e denunzia “ma mai una protesta, vero Governo italiano del Sud, per quegli italiani che erano trattati come bestie”. Nota che “c’era sapore di Risorgimento in quelle enfatiche trasmissioni captate dalla piccola radio donata dall’YMCA. […]. Nomi cari alla nostra giovinezza: la divisione “Mameli”, la divisione “Italia”, e su questi nomi tutto un seguito di fantasticherie che facevano rimpiangere la triste sorte di essere tenuti lontani da dove si combatteva la guerra dei disperati”.
I sogni erano tanti ma tutti o quasi tutti destinati a restare tali: “Ma il desiderio di poter far pervenire un messaggio dalla radio del campo Repubblicano di Hereford: un messaggio alla Patria lontana, che giungesse di conforto nell’ora dura della vigliaccheria e doppio giuoco non potè mai avere il suo compimento”.
Il senso ed il valore di quelle coinvolgenti esperienze erano pesanti ma accompagnate da adesione ad ideali condivise ma difficilmente tangibili: “Doloroso fu il distacco dai camerati che avevano sin lì seguito la sorte comune ma la certezza era unica: nessuno, ovunque fosse stato portato, comunque fosse stato trattato, avrebbe mollato mai!”. Nell’appendice alla IV edizione Mieville apre il suo animo ad una confessione tanto viva quanto convinta: “Poi con l’andar della guerra e con il mutare degli stati d’animo anche i miei sogni e le mie immagini mutarono. Sempre più tristi i sogni e sempre meno confortanti le immagini”.