Nelle elezioni statunitensi dello scorso otto novembre vi è solo un vincitore certo: Ron DeSantis il rieletto governatore della Florida. A differenza del 2018 quando vinse per la prima vota con un risicatissimo vantaggio di 32463 voti, il quarantaquattrenne politico repubblicano a sopravanzato il suo rivale democratico Charlie Crist di ben 20 punti percentuali (59,9 per cento contro 39,9). Persino le cittadelle liberal di Palm Beach e di Miami Dade, dove Hillary Clinton aveva ottenuto nel 2016 un successo strepitoso, questa volta hanno preferito DeSantis senza parlare dei latinos che lo hanno votato in massa (più del 56 per cento secondo un sondaggio CBS). Un trionfo che lo proietta verso le elezioni presidenziali del 2024. Trump permettendo, ovviamente.
Un problema non da poco. Nonostante quasi tutti i candidati da lui imposti siano stati battuti, “The Donald” non è per nulla rassegnato alla pensione e medita un ritorno alla Casa Bianca. Nei suoi calcoli per DeSanctis c’è al massimo un posto da vicepresidente (vista la sorte di Mike Pence, non un gran traguardo…) o, meglio ancora, il nulla.
Non la pensano però così i maggiorenti del Grand Old Party, ormai stufi delle intemerate trumpiane, e il potente Murdoch con il suo gruppo editoriale. A fare la differenza vi è poi una sempre più larga parte della base repubblicana affascinata dal dinamismo del governatore dello “Sunshime State”, dalle sue dure battaglie contro le tasse e immigrazione clandestina, dal suo atteggiamento aperturista durante la pandemia e dalla campagna culturale contro la narrazione LGBT nelle scuole pubbliche. Insomma per tutti o quasi DeSantis appare come il campione di un trumpismo (moderato) senza Trump, il nuovo alfiere di una destra repubblicana identitaria ma presentabile. L’uomo giusto per far dimenticare l’assalto al Campidoglio e le altre stravaganze dell’ex presidente.
Un progetto che interessa anche i “grandi elettori”, il ristretto giro di super miliardari che finanzia le campagne elettorali. Se a sinistra c’è George Soros che ha beneficato le casse democratiche con 127 milioni di dollari, a destra troviamo Richard Uihlein (52 milioni di contributi al GOP), il “babbo” di Tesla Elon Musk e, soprattutto, Kenneth Griffin, fondatore dell’Hegde fund Citadel e detentore di una fortuna valutata a 30 miliardi di dollari.
Griffin è uno dei principali donatori del partito repubblicano — soltanto nell’ultima campagna ha versato 100 milioni ai suoi beniamini— e, dopo essersi trasferito dalla liberal Chicago in Florida (proprio a due passi dalla villa di Trump a Mar a Lago) ha puntato da tempo su DeSantis, la stella nascente del conservatorismo americano, considerandolo l’unica alternativa possibile all’ormai ingombrante Trump.
Pur non condividendo, almeno pubblicamente, tutto l’armentario polemico del governatore ha finanziato con cinque milioni di dollari la campagna elettorale e si è detto disponibile ad entrare, se la sua candidatura venisse ufficializzata dal partito, nell’ipotetica squadra di governo. Magari come segretario al Tesoro.
Al netto delle prossime iniziative di “The Donald”, dietro il fitto lavorio per far ottenere la candidatura al governatore vi è un obiettivo chiaro: riportare un repubblicano “realista” e pragmatico a Washington e mettere fine a quel clima di guerra civile che affligge e divide da anni il Paese. Un compromesso accettabile che raffreddi le tensioni interne e rilanci il Paese chiudendo, come Griffin chiede con forza «la retorica delle elezioni truccate e riapra finalmente un dibattito sereno tra i due partiti principali». I ricchi portafogli degli sponsor sono pronti, DeSantis chissà?