“Per noi occidentali i fenomeni nati dal contatto dell’uomo con l’invisibile hanno un senso contingente. Non siamo capaci di interpretare nella loro autenticità l’Angakok esquimese o l’iniziato del Niger, ebbri di Dio; sovrapponiamo ad essi l’immagine della nostra religione o, meglio, del modo con cui viviamo la nostra religione, che diventa spesso l’occupazione facoltativa di una noiosa domenica mattina.
“In tutte le civiltà tradizionali abbiamo trovato i segni certi di una fede unica e abbiamo sentito la profonda unità spirituale della comunità umana al di là delle diversità delle culture e dei riti. Nelle civiltà tradizionali il termine ‘spirituale’ non ha il significato che gli diamo noi di accompagnamento contingente del materiale: occupa il suo posto vero di causa efficiente, di motivazione sempre presente nella condotta umana”.

Tra le innumerevoli possibili definizioni della messa in stato d’accusa dell’occidentalismo questa di Jean Servier (1918-2000) mi è parsa la più pertinente nel qualificare la decadenza spirituale occidentale, delle sue fedi materializzate, del suo ritualismo pressappochista, delle sue liturgie modellate sulle espressioni della modernità più volgare. Il nostro orgoglioso panteismo naturalista, peraltro senza essere supportato da alcun riferimento colto, ancestrale, arcano, ma soltanto feticista al punto da essere grottesco, nutre l’eresia di una seconda o terza o quarta “religiosità”. Tale atteggiamento ci impedisce di vedere ciò che di “tradizionale” alberga presso popoli e culture che il totalitarismo modernista sta sopprimendo materialmente acquisendoli alla “causa” del progresso che dovrebbe eliminare ogni anelito sacro che infici la venerazione del profitto. E allora le genti che si piegano all’inconoscibile e portano nell’anima il sentimento dell’invisibile, sono i reietti, i rifiutati, gli scarti dell’umanità.
Non credo che Servier avesse così presente, come poi si è rivelato, il paesaggio orrendo che presupponevano le sue meditazioni sul declino della civiltà e dell’unica razza esistente, la razza umana. Le aveva cercate nei più riposti anditi della Terra le forme del divenire spirituale secondo le tradizioni differenti che davano linfa all’umanità dolente e la legavano al suo passato ed al futuro che sarebbe venuto. I vivi e i morti uniti nella gloria dell’invisibile, a prescindere da chiunque ne incarnasse il sentimento della commozione davanti a ciò che non si vedeva eppure c’era. Nella danza del sole per un guerriero o nel rito della fertilità per una fanciulla non si “leggeva” il folclore che vi si legge oggi, ma nel tempo precedente la profanazione, come quella che si celebra nelle chiese cattoliche di tutto il mondo, vi era L’ invisibile a cui si levavano canti e pianti di gioia e di dolore. Era quello un mondo scandito dal reale dell’irrealtà o, se si vuole, dell’inconoscibile che non aveva bisogno di spiegazioni. “Lo Spirito non può elevare barriere tra gli uomini”, scriveva Servier. E magari fosse ancora così. La comunità umana se ne gioverebbe grandemente. Invece accade che lo Spirito sia stato esiliato dal mondo e l’invisibile si sia nascosto da qualche parte. Fino a quando non sappiamo.
Allora prendiamo nelle mani il libro di Servier, L’uomo e l’invisibile, ripubblicato dalle edizioni Iduna, che cinquantasei anni fa l’etnologo francese terminò alla fine di una ricerca decennale, dopo peripezie e indagini tra culture sconosciute o, nella migliore delle ipotesi, misconosciute, per asseverare un bisogno quello del legame tra l’uomo e ciò che non vede, ma profondamente “sente”, indipendentemente dalle fedi e dalle speranze. E riapriamolo “a caso” direi poiché in ogni capitolo è possibile cogliere un’illuminazione che ci porta più leggermente all’individuazione del sacro e della trascendenza come “veicoli” per passare al di là della materialità, dove il vissuto vero è eterno a prescindere dai misteri che lo avvolgono.
Morto a ottantadue anni, a Saint Christol, in Francia, Jean Servier ha legato il suo nome a fondamentali ricerche sulle popolazioni del nord Africa, dove era nato, a Constantine, per l’esattezza, in Algeria, e in particolare sui Berberi. Autore di una ventina di saggi e di decine di articoli scientifici, la sua opera più importante è appunto L’uomo e l’invisibile, giustamente considerato il “manifesto” dell’etnologia spiritualista contrapposta all’evoluzionismo e allo strutturalismo.
A lungo professore all’Università di Montpellier e di Aix-en- Provence, dove ha insegnato per oltre trent’anni, Servier insieme con l’antropologo Gilbert Duran, nel 1967 fondò la corrente della socio-etnologia dell’immaginario che anima ancor oggi molti esponenti internazionali dell’etnologia, riprendendo per buona parte le tesi di Marcel Griaule che, come riconosceva Servier stesso “per primo ha avuto il senso di questa perfezione delle civiltà diverse dalla nostra e della loro scelta volontaria di una via che non è quella su cui noi avanziamo, una via che si dirige verso l’invisibile e non verso la conquista della materia”. Servier è autore tra l’altro di Storia dell’Utopia, nel quale affronta da un punto di vista politico, sociologico ed etnologico il concetto di Utopia prendendo le mosse dalla Repubblica di Platone fino alle utopie, alle antiutopie e alle distopie di Aldous Huxley e George Orwell.
Il suo impegno culturale e civile gli faceva dire: “La cultura, questo patrimonio ereditato, comporta non soltanto delle conoscenze, un ideale sociale, una certa concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo, ma una ragione per vivere. Difendere la cultura è difendere la nostra civiltà”.

E la civiltà si difende riconoscendo le differenze culturali, ma senza negare la percezione dell’inconoscibile presso popoli e comunità che lo percepiscono in maniera diversa da come lo si percepisce in Occidente. Servier ha dato peso e sostanza a ciò che prima di lui era vago, impreciso, impalpabile. In definitiva “sconosciuto”. E, dunque, indecifrabile fino ad utilizzarlo come un’inutile Dalla sua intelligenza votata alla definizione del sacro e del trascendente, è scaturita la concettualizzazione di “invisibile” che pur qualificando il “numinoso” lo sottrae alla vaghezza interpretativa su cui per secoli filosofi, teologi, si sono esercitati. Se il sacro, infatti, può essere creato o costruito addirittura dall’uomo, e non in tutte le culture, l’ “invisibile” all’uomo s’impone naturalmente e, dunque, rientra nelle sue ordinarie, elementari e prioritarie conoscenze. Lo si può rifiutare nella dimensione specificamente e strettamente religiosa che presenta, ma già questo significa non ignorarlo aprioristicamente e, paradossalmente, dunque, accettarlo.
Uomini fondamentalmente uguali in ogni area del Pianeta in qualsiasi epoca, seguaci di qualsivoglia religione, sono accomunati dalla ricerca di una dimensione trascendente. La “visone del sacro” che li connota può assumere diverse forme, mentre l’intuizione dell’inconoscibile non è suscettibile di fraintendimenti. Tutti, tranne gli agnostici e gli atei, ritengono che l’anima sopravviva dopo la morte perché è proprio dell’uomo credere alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte carnale. Per Servier l’ “invisibile” è la sola vera “patria umana”.
E, dunque, il raggiungimento dell’invisibile è inevitabile. Quale che sia il significato che ad esso si conferisce, come ha spiegato in numerosi studi l’etologo Robert Ardrey. Ed in effetti, come sostiene Servier, “nello spirito dell’uomo delle civiltà tradizionali non ha l’indeterminatezza di un concetto metafisico; è una realtà, una dimensione nella quale si muove ognuno degli uomini che compongono l’umanità intera. L’invisibile nell’uomo è più reale, più presente, più sensibile che una qualunque parte del suo corpo. L’invisibile è attorno all’uomo come un’atmosfera che registra ciascuna delle sue azioni terrene e le riflette in conseguenze che sarebbero ineluttabili senza l’azione di mediatori, anch’essi invisibili”.
Le “civiltà tradizionali”, cui fa riferimento Servier, diverse, ma non opposte alla nostra, sottolineano la “funzione che esse hanno avuto finora nell’umanità”, vale a dire “conservare” e “trasmettere” certezze ed esperienze, specialmente spirituali, derivanti da uno stesso patrimonio di valori. Per cui ognuno, può avere la propria percezione della realtà profonda, “invisibile”, cui connettere la propria esistenza. E far naufragare così lo stupido razzismo evoluzionistico che informa la nostra irreale esistenza fondata su pregiudizi scientisti. Insomma, secondo Servier, i “selvaggi non esistono”. E mai sono esistiti perché l’uomo non si è evoluto secondo parametri tracciati da un pensiero semplicistico che lo vorrebbe discendente dalle scimmie africane e poi incivilitosi fino a diventare qual che è.
La sua anima – l’anima dell’uomo primordiale che sembra essersi smarrita attraversando i sentieri sconnessi del materialismo scientifico e del determinismo storico – è legata all’invisibile come presenza vitale da raggiungere dopo la fine terrena. È così che il culto dei morti è l’espressione non della vaghezza della memoria che tributa un omaggio al trapassato, ma la forma vitale del ricongiungimento con la realtà intellegibile. Perciò la sorte della “spoglia mortale è funzione dell’ideale che ogni civiltà persegue oltre la morte: persistenza dello stato intermedio larvale, tentativo di evitare la reincarnazione o, al contrario, ricerca del ritorno nella carne. Tutti i riti funebri sono tecniche la cui efficacia è condizionata dalla credenza nella sopravvivenza dell’anima e da una conoscenza approfondita delle modalità di questa sopravvivenza la cui concezione è analoga nelle differenti civiltà”.
Infatti, non deve meravigliare se in molte civiltà la dimora per eccellenza non è la casa nella quale si abita normalmente, ma la tomba, dimora suprema ed inviolabile, predominante e non occasionale.

La prospettiva di Servier rimanda alla sua stessa esperienza. Da etnologo, antropologo, filosofo, studioso delle religioni ha attraversato la soglia dell’inconoscibile. E dunque della fine che quasi ha toccato, immedesimandosi nella vita ulteriore. Tanto da scrivere che l’angoscia millenaristica che pervade l’uomo contemporaneo, più degli uomini del passato remoto, “è il riflesso della nostra paura della morte, poiché l’avventura umana ci è ormai estranea. Abbiamo scelto nel labirinto una direzione diversa, senza trovare un filo per guidarci: siamo fanciulli perduti nel buio e non adulti sicuri della loro vita”.
Dunque, è necessario rimettere in questione le nostre “quiete certezze” rifiutando innanzitutto di classificare scientificamente ciò che non può essere classificato, come le civiltà o un’opera sinfonica o un dipinto. “Il pensiero umano è uguale in tutte le sue manifestazioni dal momento della sua presenza sulla terra, e questo ci dice la voce dei saggi con gli abiti a brandelli che, qui o là, possono ancora aprire per noi, sul mondo gli strappi del loro mantello. Anche se la nostra civiltà ha scelto la sua via, ciascuno di noi può ancora meditare e tentare di decifrare le umili tracce lasciate nei corridoi del labirinto dai piedi nudi dei nostri fratelli. Forse ritroveremo nella cenere la parola di passo che tutte le iniziazioni vi hanno iscritto”. E qual questa parola? Semplicemente “Universo”. La risposta è “Uomo”. Così, assicura Servier ritroveremo il segno del sacro, dello spirito, della nostra immortalità, mentre le parole deperiscono e si perdono nel nulla.
L’uomo e l’invisibile non è un saggio storico o di storia delle religioni o più propriamente un’indagine attorno al sacro, ma un “manuale” per reagire al “pensiero unico” al di là delle aspettative dello stesso Servier nel 1963, quando concluse il suo saggio. Mai avrebbe immaginato che lo avremmo letto quasi sessant’anni dopo con questo spirito.
Jean Servier, L’uomo e l’invisibile, edizioni Iduna, Milkano 2020, pp.435, € 28,00