Brutta cosa l’espulsione — magari educata, garbata, ma definitiva — di Marcello Veneziani dalle pagine de “Il Giornale”.
Brutta roba cancellare una voce controcorrente dalle colonne di un quotidiano nato libero, coraggioso e indipendente nel 1974, un anno terribile e crudele.
Brutta storia scordare una storia gloriosa, iniziata in una Milano infuocata, lacerata, assediata ma non perduta, non vinta.
“Il Giornale” fu la scommessa coraggiosa di Indro Montanelli, Mario Cervi, Egisto Corradi, Livio Caputo, Enzo Bettiza, Raymond Aron, Marcello Staglieno e tanti altri maestri di giornalismo e divenne la bandiera di un’Italia anticomunista, rigorosa e pulita.
“Il Giornale” fu un azzardo meravigliosamente folle che all’epoca sconvolse le paludate regole del “sistema” e gli assetti del giornalismo italiano. Negli anni di piombo Montanelli — nonostante la depressione cronica e le mille sue ansie e tante paturnie — trovò il coraggio (e qualche soldo, non molti) per sfidare i potenti: i Rizzoli, gli Agnelli, i democristiani, i socialisti, i comunisti. Con uno sberleffo tutto toscano — e un po’ fascista, l’Indro era pur sempre frutto della “covata” di Berto Ricci — lanciò “Il Giornale”. Nel segno della serietà professionale e della libertà di pensiero. Contro tutto e tutti.
Nel suo primo editoriale il Direttore scrisse: «Chi sarà il nostro lettore noi non lo sappiamo perché non siamo un giornale di parte, e tanto meno di partito, e nemmeno di classi o di ceti. In compenso, sappiamo benissimo chi non lo sarà. Non lo sarà chi dal giornale vuole soltanto la “sensazione” […] Non lo sarà chi crede che un gol di Riva sia più importante di una crisi di governo. E infine non lo sarà chi concepisce il giornale come una fonte inesauribile di scandali fine a se stessi. Di scandali purtroppo la vita del nostro Paese è gremita, e noi non mancheremo di denunciarli […] Ma non lo faremo per metterci al rimorchio di quella insensata e cupa frenesia di dissoluzione in cui si sfoga un certo qualunquismo, non importa se di destra o di sinistra […] Vogliamo creare, o ricreare, un certo costume giornalistico di serietà e di rigore. E soprattutto aspiriamo al grande onore di venire riconosciuti come il volto e la voce di quell’Italia laboriosa e produttiva che non è soltanto Milano e la Lombardia, ma che in Milano e nella Lombardia ha la sua roccaforte e la sua guida».
Su queste le coordinate nacque “Il Giornale”. Una fucina di idee spesso contradditorie ma fulminanti, una scuola d’ottimo giornalismo, ma — diciamo la verità — un esempio di pessima amministrazione: il Direttore era un Maestro della penna e non poteva/voleva perdere tempo a leggere numeri, cifre, bilanci.
Il Cavaliere, allora lucido e temerario, salvò l’impresa con tanti soldini, ma mai intervenne sulle linee editoriali. Poi le cose s’intricarono e si complicarono. Nel 1994 Montanelli abbandonò clamorosamente la direzione quando Berlusconi scese in politica. Un disastro. Il quotidiano sembrava spacciato ma Vittorio Feltri e, poi, Belpietro tennero la barra, mantennero le vendite e consolidarono i bilanci. Ognuno a modo suo, ma con intelligenza e libertà. Troppa libertà.
Nel 2012, al crepuscolo del sogno berlusconiano arrivò alla direzione — grazie a una piccola congiura redazionale e le manovre di una concittadina di Flavio Briatore — Alessandro Sallusti, ottimo giornalista e (da quel momento) devoto credente del verbo sultaniale. Un vero santo della chiesa di Arcore.
Al di là delle battute, Sallusti è uomo di mondo. Alessandro non crede a nulla ma adora il suo conto bancario. Con fermezza e oculatezza. Pur convinto della stanchezza del Berlusca, si è infilato nella scia e ha deciso d’obbedire ad ogni suo ordine, anche il più strampalato. È lui che paga….
Con pervicacia (e intimo dispiacere, ne siamo convinti), l’Alessandro si è adeguato persino al nuovo corso renziano e filo governativo. Da qui la rottamazione del quotidiano che Sallusti dirige: via ogni voce critica, via ogni professionalità seria, via ogni redattore non allineato. L’ultima ristrutturazione interna non lascia dubbi: l’impoverimento di pagine impegnative, importanti ma costose (cultura, finanza, esteri) e il pensionamento anticipato o la marginalizzazione di professionisti rodati e sperimentati ma non sinergici al “cerchio magico” dell’editore.
Via perciò anche Marcello Veneziani. Via il “Cucù”. Via tutti i rompiscatole. L’importante per il direttore è suonare i pifferi sui ritmi della banda di Arcore. Un’orchestra stonata ma gradita all’impresario. Marcello si rassereni. Come avvertiva Riccardo Cocciante “era già tutto previsto”. Anche il suo licenziamento.
Da lassù Montanelli borbotta e (con il permesso di San Pietro) si appresta probabilmente a lanciare un nugolo di fulmini e saette su via Negri e dintorni. Qualche lampo baluginerà anche sul villone di Arcore.
P.S Per completezza, ecco la lettera aperta di Marcello Veneziani ai suoi lettori e amici. Buona lettura.
Cari Lettori,
ora vi spiego. Siete in tanti a scrivermi e telefonarmi per sapere come mai non appare più il cucù sul Giornale. Non posso andar via come un clandestino. Il Giornale mi ha comunicato la decisione di chiudere il mio rapporto di lavoro. Subito o al più entro l’estate. La decisione dell’Editore è presa e finirà in modo consensuale. La motivazione formale è lo stato di crisi dei giornali e del Giornale stesso che impone tagli e prepensionamenti. Al Giornale, si sa, esprimevo una linea dissonante, la mia rubrica era un’isola. Cominciai a scrivere sul Giornale venticinque anni fa, chiamato da Indro Montanelli, ne uscì quando mi parve che la sua posizione non rappresentasse più i suoi lettori e la necessità di una svolta nel Paese; vi ritornai con Feltri per due volte. Lascio a ciascuno pensare al risvolto politico, giornalistico, ma anche umano e professionale, della vicenda in corso; vi risparmio il mio stato d’animo.
Chi ha idee come le nostre non è facile che trovi tribune accoglienti. Tengo a farvi conoscere lo stato delle cose, senza polemiche, anche per rispondere a quanti in precedenza mi chiedevano come mai la rubrica quotidiana saltava così spesso negli ultimi tempi, non per mia negligenza. Ho un ruolo pubblico, rappresentativo di un’area d’opinione, la mia attività è esposta in vetrina ogni giorno. Dunque è giusto essere trasparenti fino alla fine e giustificare a voi lettori, che siete i miei veri editori, la futura assenza e la scomparsa della rubrica cucù, dopo quattro anni di vita. Ho già vissuto situazioni analoghe, alcuni ricordano precedenti esperienze, censure, licenziamenti, casi come l’Italia settimanale ma non solo. È il prezzo amaro della libertà e dell’incapacità di essere cortigiani, ruffiani e puttani.
Non è un mistero che da tempo reputo conclusa la parabola politica di Berlusconi: da anni non esprime una posizione politica e non interpreta il sentire del suo popolo, perché è preso nelle proprie vicende e nella tutela, pur comprensibile, dei suoi interessi. Lo scrivo da tempo, in un crescendo di toni, da La rivoluzione conservatrice in Italia, ed. 2012 (“la fine del berlusconismo”), poi sul Giornale stesso e giorni fa sul Corriere della sera. Criticai pure la “pascalizzazione” di Berlusconi, i messaggi sulla famiglia, i trans, l’animalismo. Non ebbi esitazioni a criticare Fini quando era ancora in auge, perché ritenevo che stesse uccidendo la destra, e il tempo poi ci dette amaramente ragione. Per lo stesso motivo non ho esitato a dire che Berlusconi fu la causa principale del trionfo elettorale e poi della dissoluzione del centro-destra. Lo portò al governo e poi alla rovina, col concorso determinante di poteri ostili e alleati ottusi, giudici e media; aggregò forze diverse e poi le disgregò. Espulse pezzi uno dopo l’altro, fino al vuoto, farcito di quaquaraquà.
Le mie idee saranno giuste o sbagliate, lo dirà la prova dei fatti, ma quei giudizi nascono da un ragionamento, privo di rancori o vantaggi personali, mosso da passione di verità e da una testimonianza di vita e di coerenza, costi quel che costi. Cercherò di non chiudere il rapporto con voi che mi seguite da tempo e siete abituati al gusto aspro della libera verità, anche quando è scomoda, per noi stessi o per chi abbiamo, in spirito di libertà, sostenuto. Finché ne avrò la possibilità, scriverò dove mi sarà permesso dire quel che penso, e non mancherò di far sentire la mia voce e anche i miei pensieri dell’anima, quelli meno legati all’attualità.
Vi voglio bene, sul serio
Marcello Veneziani
Grande conterraneo: rappresenti la vera fede, quelle radici sempre eterne, ma
grandemente perdute in questi ultimi tempi miserabili.