L’eredità del Cosmit, del comitato che ha rappresentato l’eccellenza del settore casa-arredo italiano negli anni ’60 e precursore, della prima edizione del Salone del Mobile che fu ospitato negli spazi della vecchia Fiera di Milano l’anno dopo, continua ad essere quella vetrina luccicante che dovrebbe rispecchiare l’interiorità e l’esteriorità di Milano. Una primavera smaliziata che oggi si diverte a correre lungo le strade affollate della città, con tutto il suo corollario di eventi modaioli, votati al design e all’innovazione. Sette giorni all’anno, dal 14 al 19 aprile, per sentirsi parte di un qualcosa più grande di se: dagli anni della sua nascita in cui tutti gli espositori e visitatori erano solo italiani, di acqua sotto i ponti (la globalizzazione e le fasi di crisi a ripetizione hanno fatto il resto) ne è passata parecchia.
Siamo giunti alla 54esima edizione e parecchie generazioni di italiani hanno notato, decennio dopo decennio, i segnali di un cambiamento di quello che è diventato un appuntamento fisso.
Immancabile, quanto la “michetta” con il salame che mangiavano i legnamè (falegnami) dopo l’addio degli austriaci alla città, prima di diventare piccoli imprenditori-artigiani del legno e del mobile, per poi essere successivamente disintegrati dal polo dei mobilieri della Brianza e, dalla nascita dei supermarket del legno e del fai da te. Quando una professione era quella e non si mischiava con il fighettame saloniero dei venerabili social climber, presenti ovunque. Quando l’arte non era illusione e messa in scena, ma una ricerca estetica che andava a pari passo con l’eleganza e lo stile di una piattaforma non convenzionale.
E in tanto il tempo passa e il Salone degli anni 2000, ricorda a tutti gli appassionati del genere, quanto siano importanti l’esportazione, i giochi tattili e visivi, la competenza tecnologica, le «esperienze sensoriali» risvegliate dalle istallazioni in vetro che richiamano il ghiaccio (presenti al Superstudio Più di via Tortona il 18 e 19 aprile) e che avevano il compito di sbalordire gli astanti. Come si conviene ad una Kermesse internazionale, che ruota attorno alla tracciabilità di una breccia nel mercato straniero ? Indubbiamente. Però al contempo, dimenticandosi totalmente del mercato interno, (roba da poveri) e ricordandosi ogni tanto di passare in rassegna la cartina geografica italiana; dove erano allocate le imprese italiane del settore e dove l’inconsistenza del mercato interno, ha il volto dell’eterno rialzarsi tra l’incerto e le probabilità effettive.
Nel 2014 il comparto Legno Arredo ha chiuso con un 2,7% rispetto al 2013. Invece, quello manifatturiero nazionale, ha visto la scomparsa di tantissime aziende, raggiungendo la soglia di guardia, superata abbondantemente negli ultimi mesi dell’anno, pari al -1.600 che va sommato alla discesa occupazionale; quantificabile con una perdita del -3.800 unità. Possiamo dire, che al di fuori delle giornate del Salone, composto ormai in prevalenza da operatori cinesi, indiani, russi, americani, medio orientali, francesi e tedeschi, l’evento milanese custodisce gelosamente la percentuale delle esportazioni, che con il suo +2,9% compensa a stento il calo dei consumi interni.
In ogni caso, pensando alla prossima edizione, l’importante è vivere a pieno le sette giornate di Milano come ci ha insegnato Le Corbusier — grande maestro e un bel fascista, come ci ricorda il saggio (su cui torneremo presto) di Xavier de Jarcy Le Corbusier, Un Fascisme français, editato a marzo da Albin Michel — e il suo modello di architettura umanista: all’insegna dell’utopia della produttività e della teoria, fondata esclusivamente sulle esigenze, fittizie, dell’uomo. Quell’insieme e quel rapporto di accessorietà che abbiamo con tutto e che nasconde, così bene, persino l’evidenza sotto agli occhi.