Le sanzioni invocate, minacciate ed infine applicate alla Russia hanno iniziato a produrre i propri effetti. Peccato che l ricadute negative abbiano già investito anche l’economia italiana, ovvero quella di uno dei Paesi che le sanzioni le applicano. Difficile del resto immaginare il contrario, considerato il livello di interconnessione delle economie contemporanee. Ma se era noto ed evidente che vi sarebbero state ripercussioni negative sull’economia italiana – e su una ripresa post pandemia che sembra esistere più nelle statistiche che nella realtà quotidiana – l’impressione è che l’entità e la pervasività di questi contraccolpi siano stati ampiamente sottostimati. Se per incapacità o malizia difficile dire.
Se per le bollette di gas ed energia elettrica famiglie ed imprese già hanno sperimentato sul proprio bilancio il peso dell’incapacità di sviluppare una politica energetica adeguata alle necessità di una Paese avanzato quale – a tratti sorprendentemente – l’Italia ancora è, al netto delle infantili ed inconcludenti fascinazioni “gretine”, dunque c’è maggiore consapevolezza sulle prossime difficoltà. Un grande cono d’ombra, invece, avvolge tuttora settori non meno strategici. Uno su tutti: quello dei cerali, grano e mais in primis.
Ad eccezione degli addetti ai lavori, in pochi infatti sono consapevoli del rallentamento già in atto del commercio di cereali e del relativo aumento dei prezzi. Il grano, ad esempio, ha raggiunto il costo record di 320 euro a tonnellata sulla piazza di Parigi, come sottolinea Il Sole 24 Ore nella sua edizione del 2 marzo. Nessuna sorpresa se si considera che Russia ed Ucraina producono circa il 30% del grano mondiale: il progressivo rallentamento dei trasporti dovuto alla guerra e l’esclusione di alcune banche russe dal sistema di pagamenti Swift – effetto delle sanzioni – rendono difficili i traffici, innescando una spirale al rialzo dei pressi e scarsità – momentanea, si spera – sui mercati. Queste difficoltà hanno già prodotto in Italia non solo il rialzo dei prezzi al dettaglio, ma in qualche caso il blocco della produzione.
Altro settore in stato di allerta, quasi di pre-crisi, quello dei mangimi per animali, in special modo quelli a base di mais. Gli allevatori segnalano in diverse regioni un preoccupante abbassamento dello scorte e difficoltà a reintegrarle. Oltre, naturalmente, all’esplosione dei costi.
Anche soluzioni “autarchiche” – sulla scorta del possibile ritorno al carbone evocato da Draghi, con buona pace per le ansie da transizione ecologica – rischiano di essere vanificate dalle contro-sanzioni messe in campo dalla Russia: Mosca ha bloccato l’esportazione dei fertilizzanti, di cui è primo produttore al mondo. Tutti questi fattori insieme potrebbero infine tradursi in un calo della disponibilità di grano per l’Italia del 18% (fonte Kearney Italia).
Altra attenzione richiederebbero poi i capitoli relativi ad altre materie prime (ad iniziare da metalli come nickel ed alluminio) il cui commercio già sta subendo forti rallentamenti, ma non è questo il contesto in cui affrontare il tema nella sua totalità. Un’ultima riflessione, tuttavia, appare opportuna. Perché le sanzioni siano realmente efficaci – e la storia insegna che raramente lo sono – occorre che la loro applicazione non sia solo rigida, ma quanto più estesa possibile. Ebbene, proprio quest’ultimo punto mostra quella che oggi appare come una crepa, domani potrebbe rivelarsi qualcosa di ben più grande: la conferma che c’è un nuovo equilibrio su scala globale.
Siamo chiari: se lo schieramento dei Paesi euro-occidentali è stato pressoché compatto sulle sanzioni a Mosca, non sono poche né trascurabili le eccezioni. Non c’è solo la “cattiva” Cina a non prendere parte al blocco economico, anche un altro gigante asiatico come l’India annuncia di non voler limitare gli scambi con Mosca così come il Brasile. Anche un membro, per quanto inquieto, della Nato come la Turchia non appare al momento disposto a rinunciare agli affari con la Russia. Insomma, oltre il blocco euro-atlantico c’è un mondo, è davvero il caso di dirlo! Un mondo che certamente a livello di pil non regge – ancora – il confronto con Stati Uniti, Europa e gli “occidentali d’Oriente” (come si potrebbero definire Corea del Sud, Giappone ed Australia), ma certamente non è insignificante. E non solo sotto il profilo demografico.
Insomma, il dubbio che qualcuno si sia mosso in questo campo delicatissimo pensando di essere ancora ai tempi della regina Vittoria – quando la sola Londra controllava i due terzi del globo – inizia ad affacciarsi nelle menti meno condizionate dall’odierna cappa di conformismo imperante.
E che Dio ce la mandi buona.