Marshall Mathers III, al secolo Eminem, si è sentito l’altro giorno ferito moralmente nonché nei suoi interessi economici dal fatto che un candidato repubblicano, Vivek Ramaswamy, abbia osato rappare Lose yourself, una delle sue canzoni più note, sul palco di uno degli appuntamenti del suo “tour” nel contesto dell’Iowa State Fair, circa tre settimane fa. Sorvolando sul fatto che – a parere di scrive – da (aspirante) candidato a presidente del paese più potente del mondo sarebbe preferibile conservare la propria smania da karaoke alle serate in famiglia, colpisce senza dubbio la permalosità del rapper. Certamente non si intende qui negare la legittimazione di Eminem a proteggere il proprio brand facendo inviare da EMI una lettera di “cease and desist” al team del candidato, reclamando una sua proprietà intellettuale. Poco danno, peraltro: l’addetto stampa di Vivek ha replicato alla stampa con tono amichevole e divertito che “lascerà il rap al vero Slim Shady”, e la questione si è subito sgonfiata. Tuttavia il caso rimane curioso e non privo di una certa ironia. Non si infatti è mai sentito di un rapper, Eminem incluso, che si sia scandalizzato e indignato per il fatto che canti le sue canzoni anche chi spaccia e abusa droga e falcia i rivali con l’UZI.
La sottocultura rap, come noto, campa infatti ormai da molto tempo per lo più sull’eterea triade “money guns and bitches” al punto tale da farne scaturire un sottogenere – oggi anche maggioritario – chiamato “gangsta”, che come suggerisce il nome ha come tema principale lo spaccio, l’uso (e abuso) di droga e sopratutto il ricorso smodato alla violenza tipico dello stile di vita dei membri delle gang urbane. Certo la politica è una cosa sporca, ma almeno generalmente non lo è di sangue o di vomito da overdose. Certo può sconfinare in comportamenti poco etici e talvolta anche illegali, specie quando siano in gioco vaste quote di potere – ma per lo meno chi è nell’agone politico non si vanta a microfoni aperti e telecamere accese di riempire di piombo gli avversari e di rubargli le donne per sbatterle poi in faccia agli altri rivali come bottino di guerra, nemmeno fosse Conan il barbaro. Ma dopotutto si tratta semplicemente dell’ultimo di una lunga serie di episodi, il primo dei quali risale alla campagna elettorale di Ronald Reagan del 1980, quando fu il Boss a fare storia per la prima volt dicendo di no. Via via poi si sono succeduti vari “incidenti” simili, fino all’apoteosi con Trump, che ovviamente in quanto “male assoluto” non meritava nemmeno musica DRM free, e che anzi è stato più e più volte insultato e persino minacciato di morte da un numero incalcolabile di piccole, grandi e grandissime star della musica e del mondo dello spettacolo in genere. La motivazione addotta per l’interdizione all’uso di suddette proprietà intellettuali è sempre la stessa: non essere strumentalizzati per ragioni politiche, ed evitare danni economici ingenti derivanti dall’essere associati – non sia mai – a questa o quella persona politica, mettendo così a rischio la propria fanbase alienandone una parte. Più che legittimo. Salvo poi naturalmente correre a cantare tutti insieme appassionatamente al We Are One, la celebrazione inaugurale di Obama al Lincoln Memorial.

Ma nella Land Of The Free della musica è in corso già da qualche tempo (e nemmeno troppo sotto traccia) una robusta risposta anticorpale a questa pandemica ipocrisia. Strappa il microfono Tom MacDonald, boccone di cheeseburger amaro per il mondo progressista e woke. Classe 1988, origini canadesi, bianco caucasico etero e fiero di esserlo come il suo più celebre collega, corpo interamente coperto di tatuaggi – volto incluso – e treccine afro in testa, non fosse che per il gusto di essere accusato di “appropriazione culturale”. Autoprodotto per non avere padroni e nessuna voglia di risparmiare colpi proibiti, nemmeno ai suoi “colleghi”. Nel 2017 sale alla ribalta proprio con Dear rappers, il suo manifesto contro la cultura del rap mainstream: “Mi avete insegnato a pensare, mi avete insegnato a crescere, mi avete insegnato come sopravvivere da solo, ora mi insegnate a bere e fumare e che ogni donna è di malaffare”. “Non voglio il vostro Xanax né le vostre auto di lusso, mi prendete a soldi in faccia poi mi dite – ehi tu, questa è arte! – no no no – siete solo dei drogati alla tv.” “Mi avete insegnato a rappare, mi avete detto come vestire, come essere perfetto, come agire se volevo impressionare, ora mi insegnate a vivere come non vivreste mai e quel che dite ai ragazzini li tiene chiusi dentro al ghetto”. Mike drop, come alle battaglie di rap.
Nel 2018 esce con Whiteboy, con cui rifiuta il concetto di razzismo sistemico e si ribella all’idea per cui ogni bianco abusa il proprio “white privilege” per farsi strada nella vita. Si alza naturalmente un polverone ancora più grosso, ma i numeri parlano chiaro: in poco tempo il video totalizza oltre 20 milioni di visualizzazioni su Youtube. Poi è un succedersi a raffica di pezzi che scalano le classifiche, uno dopo l’altro, e nel 2020 con People so stupid mette ancora più a fuoco nel mirino il mondo del politicamente corretto, l’ipersensibilità e il vittimismo delle nuove generazioni, che “sarebbero in grado di schiantare un aereo e dare la colpa alle condizioni della strada”. A loro suggerisce di prendersela con “problemi migliori o finiranno i fazzolettini.” Non risparmia il me too, o l’ipocrisia del movimento “pro choice” per l’aborto indiscriminato – “Un batterio è vita su Marte ma un battito non è vita sulla Terra??”. Si scaglia quindi contro chi lo chiama omofobo perché non si esalta per i gay pride, e procede infine a deridere le follie del greenwashing: “Niente più cannucce in plastica dentro la carta, ora solo cannucce in carta dentro la plastica, congratulazioni!”.
Il 2020 è però un anno importante per la storia artistica di TMD anche perché racchiude il momento in cui la sua strada e quella di Eminem si incrociano. Nel boom della blockchain, in occasione dello ShadyCon, evento organizzato da Eminem per vendere in forma di NFT alcuni suoi motivi strumentali, MacDonald se ne accaparra uno (Stan’s revenge) per l’ingente somma di 100 mila dollari. Lo stesso anno ne tira fuori Dear Slim, sincero e a tratti persino commosso tributo in forma di video musicale di tre minuti al celeberrimo Stan di Eminem pubblicato nel 2000 – in cui TMD (pur evidenziando alcune nette differenze tra i due in termini di visione politica) ringrazia sinceramente la star del rap per avergli salvato la vita con la sua musica nei suoi anni più difficili. Prodotto letteralmente nella camera da letto del rapper canadese agghindata con con cianfrusaglie prese da vari banchi dei pegni per assomigliare a quella di Stan dell’omonimo video, nel giro di pochi giorni ammassa 2 milioni di visualizzazioni su YouTube. Fatto curioso, ad oggi, il Mr. Slim Shady non ha ancora pubblicamente constatato l’esistenza di questo tributo, né peraltro quella di TMD stesso. Svoltando nel 2021 Tom MacDonald non però più bisogno di nessuno a fargli da sponda perché ormai è un fenomeno inarrestabile, e rincara la dose contro gli haters con Snowflakes – fiocchi di neve – altro sfottò alla fragilità delle nuove generazioni – e Fake Woke, dove prende in prestito per il refrain la famigerata punch line del noto commentatore politico Ben Shapiro: facts don’t care about your feelings – ai fatti non frega nulla dei tuoi sentimenti.
Qui critica fra le altre cose il movimento BLM, che a suo dire si lascia usare dalla politica – “le vite nere importano solo una volta ogni quattro anni” – e peraltro non migliora ma peggiora il clima perché “cerca la pace sociale facendo la guerra e poi si chiede pure perché non funziona”. Il suo messaggio ormai è maturo e a tratti sa cogliere anche con pregnanza ed efficacia il clima di divisione fomentato fra l’altro dalla scomunica e cancellazione delle opinioni non allineate: “Censurare i fatti trasforma i nostri bambini in idioti, dicono che è per la nostra sicurezza ma ti dico che cos’è davvero: rimuovere informazioni che danno forza ai cittadini. La verità non danneggia i punti di vista legittimi.” E sempre dallo stesso testo, in difesa del free speech: “There’s a difference between hate speech and speech that you hate” – “Esiste una differenza tra parole d’odio e parole che odi.” Difficile da dire meglio.
Tirando le somme, specialmente gli ultimi due anni sono stati davvero d’oro per il rapper canadese, che in contesto di sempre crescente polarizzazione non ha temuto di evidenziarne le conseguenze, colpendo a destra non meno che a sinistra, né di toccare con regolarità nei suoi testi temi politici, sociali, persino religiosi e peraltro offrendo coraggiosamente ad occhi e orecchie del suo pubblico senza alcun filtro la sua prospettiva a dir poco non conforme su tali questioni. Per tutta risposta il suo seguito sei è accresciuto come come una slavina che precipita a valle, facendone una presenza fissa nelle posizioni che contano su Billboard. Oggi TMD totalizza quasi 2 milioni di ascoltatori mensili su Spotify, forte anche dell’ottimo risultato delle ultime uscite, ancora fresche ma con già decine di milioni di ascolti e visualizzazioni, come il singolo di quest’anno Dirty Money, in cui si scaglia contro la corruzione dell’establishment politico, l’industria della guerra e big pharma: “Dollari sporchi riempiono le loro tasche mentre le nostre bare riempiono il terreno, profittano risolvendo problemi che creano per tenerci giù”. Degni di menzione anche i singoli America e American flags contro la retorica antipatriottica dei progressisti dem – “La nostra libertà è il motivo per cui puoi mancare di rispetto alla nostra bandiera, se le mie stelle e strisce ti offendono ti aiuterò a fare i bagagli”.
Non malissimo per chi ha iniziato a filmare i suoi video musicali in cameretta e nel giardino di casa con il solo aiuto della sua ragazza e di un green screen da pochi dollari. Ma intanto che fine ha fatto il vero Slim Shady, di cui si diceva all’inizio? Come commenta sarcasticamente in uno dei suoi brani proprio lo stesso Tom MacDonald, è passato dall’essere così “scorretto” da “sfottere apertamente i gay e fantasticare su come uccidere sua madre” nei suoi pezzi, a “non volere tra i suoi fan chi ha votato per Trump”. Insomma, per qualcuno che tiene così tanto a proteggere le proprie “quotazioni” in termini di fan da far causa a un candidato alle primarie del GOP (che peraltro ha davvero poche possibilità di uscire in testa alle primarie) alienarsi quasi 75 milioni di potenziali ascoltatori in quanto in aria di “trumpismo” pare un comportamento a dir poco curioso, ma tant’è. Del resto si sa, per chi indossa la casacca dei giusti la coerenza è opzionale e tutto è sempre perdonato, e infondo è proprio ciò che è successo: The Real Slim Shady si è alzato in sala, non però per staccarsi dalla folla dei patetici sosia ed imitatori come nel suo storico video, ma bensì per conformarsi, alzando il pugno e giurando fedeltà all’establishment dell’intrattenimento.